Il concetto di “finanza climatica” si riferisce al trasferimento di risorse finanziarie dai paesi industrializzati, responsabili del riscaldamento globale, ai paesi poveri, che da tempo ne pagano le conseguenze, ma che non hanno le risorse per realizzare la transizione energetica e per presentare gli impegni di riduzione delle emissioni climalteranti NDCs. Nella Cop 29, svoltasi in Azerbaijan, si sarebbero dovuti mettere a punto definitivamente i meccanismi per il calcolo delle quote che i vari governi avrebbero dovuto versare, ma a causa delle interferenze dei lobbisti del fossile tutto si è ridotto a generiche buone intenzioni.
I presupposti per alimentare il “Fondo perdite e danni” (Loss and Damage) e rendere operativa la finanza climatica ci sarebbero: una volta stabilita la cifra globale da erogare annualmente basterebbe calcolare i contributi dovuti da ciascuno Stato ad economia avanzata, in funzione delle emissioni storiche e del prodotto interno lordo pro capite. È fondamentale che il denaro dato non crei debito, cioè che venga erogato sotto forma di sovvenzioni, in modo da non gravare con interessi altissimi sulle finanze di paesi già in difficoltà, o tutt’al più con prestiti a tassi minimi.
Per avere un’idea di quali investimenti sarebbero necessari per agire in modo realistico entro il 2030 contro il riscaldamento globale, così da contenere l’aumento di temperatura entro 1,5° e scongiurare lo scioglimento dei ghiacciai, basta guardare le accurate previsioni formulate tramite Agenzie internazionali che hanno tenuto in considerazione sia l’obiettivo di mitigare i danni già intervenuti, sia quello di incrementare adeguatamente le energie rinnovabili atte a sostituire le fonti fossili. È risultato dunque che sarebbero necessari 6.300-6.700 miliardi di dollari totali all’anno così suddivisi: 2.300-2.500 per i paesi più poveri e 40 per le piccole isole, 1.300-1.400 per la Cina, 2.300-2.500 per le economie avanzate.
Ma alla conferenza di Baku la cifra per cui si sono impegnati i paesi più ricchi è stata di soli 300 miliardi di dollari all’anno contro i 1.300-2.600 ritenti necessari. Una miseria se pensiamo che nell’ultimo anno le multinazionali del petrolio Chevron, Exxon, B.P., Shell, Eni e Total hanno guadagnato 1.000 miliardi di dollari, circa 3 al giorno, arricchendosi sulla pelle dell’intero genere umano; a loro sono stati erogati 142 miliardi di sussidi (Italia 90 miliardi, 3,8 del Pil, più degli USA). D’altronde da quando è stata ventilata l’evenienza che entro il 2030 si abbandonino le fonti energetiche fossili c’è stata una corsa forsennata al loro incremento tanto che nell’anno appena passato gli investimenti per sfruttare i giacimenti ed i sussidi sono più che raddoppiati.
Per le piccole isole dell’indo Pacifico o per tutte le zone costiere del mondo l’innalzamento del livello marino a causa dello scioglimento dei ghiacciai è già un problema tangibile: le isole Marshall, Tuvalu, Maldive vedono ridursi drammaticamente i loro territori e intere zone delle regioni costiere rischiano di finire sott’acqua. Per loro partecipare alle conferenze Cop è una spesa notevole e vedere che si svolgono senza risultati a causa del boicottaggio dei lobbisti del fossile è fonte di grande frustrazione. Per questo in previsione degli incontri di Copenaghen e poi Belen BR sono state avanzate richieste ben precise tra cui:
– eliminare definitivamente i sussidi alle fonti fossili: nell’anno passato per le rinnovabili sono stati erogati 1000 miliardi (una bella cifra dirà qualcuno), ma in realtà per il fossile ben 2.000 miliardi (coè il doppio);
– definire in modo inequivocabile le quantità e i tempi dei finanziamenti in aiuto dei paesi vulnerabili, stabilendo chiaramente quanto deve pagare ciascuno Stato ad economia avanzata, che i finanziamenti erogati coprano l’intera cifra di almeno 13.000 miliardi indicata dalle Agenzie di ricerca indipendenti e che i finanziamenti partanosenza più indugi;
– cacciare i grandi inquinatori, proibendo a rappresentanti delle lobbies del fossile di partecipare come interlocutori alle conferenze per il clima, poiché è chiaro che sono lì per boicottarle e rallentarne lavori e decisioni;
– non ricorrere al solito escamotage di presentare il documento finale all’ultimo momento a ONG e nazioni vulnerabili che sono costrette ad accettare condizioni sfavorevoli, pur di far partire un documento condiviso e non vanificare tutti i lavori dell’assemblea;
– proibire ogni tipo di Greenwashing al Summit;
– dare il giusto spazio ai rappresentanti della Società Civile e delle ONG;
– garantire il totale rispetto dei diritti umani, compresa la parità di genere, poiché a Baku molti ambientalisti sono stati imprigionati e denunciati;
– infine, rivedere l’attuale sistema capitalistico e creare un nuovo sistema economico capace di mettere al centro i diritti dei popoli indigeni, delle comunità locali e la protezione di coloro che chiedono giustizia nel rispetto degli obiettivi ONU di sviluppo sostenibile, poiché è ormai totalmente evidente che non ci può essere giustizia sociale senza giustizia climatica.
Negli ultimi tre anni, con le Cop svoltesi sempre in paesi legati al petrolio (Egitto, Emirati Arabi, Azerbaijan), le conferenze hanno dato risultati risibili, come ha dichiarato Tina Stege rappresentante delle isole Marshall: «Siamo venuti in buona fede, con a cuore la sicurezza delle nostre comunità e il benessere del mondo, eppure abbiamo visto il peggio dell’opportunismo politico, […] qui si gioca con la vita delle persone». Tuttavia lo sviluppo delle Cop future potrebbe prendere una piega inaspettata poiché, anche se Trump farà uscire gli USA dai Patti per il clima, molte delle economie emergenti, riunite nei BRICS come Brasile, India, Cina, Argentina, si stanno alleando per non usare più il dollaro come moneta di scambio internazionale mondiale e questo potrebbe scardinare tutti i giochi di potere mondiali.
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