Più di 2,2 milioni famiglie in povertà assoluta. In Italia. L’8,4% del totale (Fonte: ISTAT). Ma chi rientra in questa fascia? «Chi non riesce a condurre una vita dignitosa. In pratica, accade quando non si ha la capacità economica di far fronte a una spesa minima mensile, per l’acquisto di beni e di servizi, il cui consumo è ritenuto necessario per sostenere condizioni decorose nel proprio contesto», dice Gerolamo Caccia Dominioni, Presidente di Fondazione IBVA.
«Va da sé che a Milano queste sono drammaticamente diverse da un Paese del Sud Italia, per esempio».
Il quadro peggiora se in famiglia c’è uno straniero: l’incidenza della povertà è del 30,4%. Valore che si ferma al 6,3% per le famiglie di italiani. E i minori? La percentuale è del 13,8% per i soli under 18.
«A preoccuparci è l’aumento delle povertà al Nord e poi ci sono i dati dell’occupazione in crescita…».
“A ottobre 2024 il numero di occupati supera quello di ottobre 2023 dell’1,5% (+363mila unità), aumento che coinvolge uomini, donne, 25-34enni e ultracinquantenni”, comunica ISTAT, che precisa che cosa c’è alla base di questi dati: “il numero di occupati rimane sostanzialmente stabile tra i 35-49enni, mentre diminuisce tra i 15-24enni. Il tasso di occupazione in un anno sale di 0,6 punti percentuali. Rispetto a ottobre 2023, diminuisce il numero di persone in cerca di lavoro (-26,0%, pari a -519mila unità) e cresce quello degli inattivi tra i 15 e i 64 anni (+3,1%, pari a +378mila)”. Cosa non la convince?
«Di quale crescita stiamo parlando? Del lavoro povero. Questo è un dato fondamentale, dobbiamo chiederci per quali tipi di impiego i numeri stiano salendo…».
Prima del Covid-19 sappiamo che la maggior parte dei vostri assistiti erano di origine egiziana. Oggi sono italiani…
«Sì. Il più grosso cambiamento post pandemia è che sono cresciuti i bisogni nella fascia delle nuove povertà. Ed è aumentato anche moltissimo il numero di etnie. Ci occupiamo di 30 diverse nazionalità. Per esempio, ora abbiamo più persone che arrivano dal Perù. Poi ci sono gli eventi imprevedibili, come quello che ha coinvolto l’Ucraina con la guerra: in occasione dell’emergenza abbiamo dato la possibilità di fare la spesa a 700 famiglie sfollate, ovviamente in più rispetto alle nostre solite 1.300».
Ognuna con esigenze differenti
«Sì, ma vogliamo essere un punto di riferimento per tutti coloro che vivono in povertà, partendo da un concetto: essere totalmente gratuiti nei servizi che offriamo, questo per noi è fondamentale. Abbiamo 2 supermercati Solidando ai quali si accede con una tessera a punti per gli acquisti, dove facciamo il pane tutti i giorni e distribuiamo i prodotti freschi; abbiamo un’offerta merceologica che ci permette di fare dei carrelli della spesa dignitosi con prodotti di qualità. Uno è nel centro di Milano e uno in via Appennini, nel Municipio 8. In quello del centro vanno molto di più le famiglie italiane e in media due volte al mese – per la difficoltà di muoversi con i mezzi – mentre nell’altro l’accesso medio è di circa due volte alla settimana».
Siete costretti a fare i conti con l’inflazione, che non molla, anzi. A novembre è salita a +1,3%, rileva ISTAT, su base annua, trainata nello specifico dalla crescita dei prezzi dei beni alimentari ed energetici. E qui si torna ai dati sulla povertà infantile, che denotano un incremento per quella alimentare al Nord e un’aumentata carenza di abitazioni riscaldate per i bambini del Sud. Il costo del carrello della spesa oggi sale del 2,3%, con rialzi significativi per prodotti di largo consumo come frutta e verdura, olio d’oliva, burro e pane. “La verdura fresca segna un +10,9%, con punte del +23,7% per i pomodori e del +11,2% per l’insalata”, denuncia Assoutenti…
«Oggi il consumo medio mensile per la spesa è di 470 euro, mentre nel 2023 era di 530. Uno potrebbe pensare: vuol dire che è andata meglio. Non è così: le quantità di prodotti acquistate oggi sono inferiori perché l’inflazione ha portato a una diminuzione del potere d’acquisto. Se si mettono insieme questi tre elementi – la luce che è aumentata, la rata d’affitto o dei mutui salita per i tassi e la spesa alimentare lievitata – si inquadra bene il tema delle nuove povertà».
E non parliamo solo di emergenza alimentare
«No. Nel nostro servizio educativo e formativo, per esempio, cerchiamo di dare delle risposte concrete. Il tema non è solo insegnare alle persone a leggere e a scrivere in italiano, ma anche aiutarle nella digitalizzazione: se non si supportano nell’imparare a utilizzare gli strumenti digitali, come il registro elettronico o lo Spid, non riescono a gestire la scuola dei figli e nemmeno a prenotare una visita medica».
Anche a livello psicologico – oltre che per una situazione di povertà economica – ci sarà una sofferenza
«Già. Un esempio? Pensiamo all’assurdo di un genitore che deve dipendere totalmente da un figlio, che proviene da culture incentrate totalmente sul patriarcato. Dobbiamo lavorare su queste realtà».
Come è nata la vostra Fondazione?
«Inizialmente l’acronimo IBVA stava per Istituto Beata Vergine Addolorata, è nata intorno al 1850 da un gruppo di famiglie milanesi che avevano deciso di donare alcuni beni e che servivano principalmente un ospedale o un orfanatrofio. Poi negli anni si è andata via via trasformando. Oggi il panorama della povertà è cambiato e il nome rappresenta le iniziali dei quattro valori che ispirano la nostra attività: I come integrazione. Poi B come bellezza, per dare dignità perché la gente deve venire nei nostri punti vendita ordinati, a scuola in aule belle e ad abitare in appartamenti puliti. V come volontari: abbiamo 300 persone senza le quali probabilmente non potremmo portare avanti l’80% delle nostre attività. Crediamo molto a questo concetto di cittadinanza attiva, è il nostro punto di forza e ci investiamo molto».
Ma i volontari sono necessari perché non riusciamo a far fronte all’alto numero di persone che vivono in povertà oppure perché manca chi dovrebbe aiutarli a livello istituzionale?
«Manca totalmente il servizio pubblico. Faccio un esempio: noi abbiamo uno spazio dove facciamo il doposcuola a circa 100 ragazzi delle medie e delle superiori, cosa che oggi la scuola non è più in grado di fare, soprattutto dove il 30% degli studenti sono italiani e il 70% provengono da altri Paesi. Se magari fanno già fatica a imparare la lingua, come possono studiare la geografia o la storia?
Mettiamoci anche nei panni degli insegnanti: non è facilissimo gestire un programma educativo nei confronti di classi così disomogenee in termini di preparazione e noi cerchiamo di compensare questo bisogno. Parliamo del tema alimentare, il nostro quarto pilastro: abbiamo la gestione di due supermercati dove vengono a fare la spesa più o meno 4.000 persone. C’è bisogno della logistica, della raccolta del fresco, della pulizia, della gestione… servono almeno 45 persone. Pensate che, una volta usciti dalla loro emergenza, alcuni dei nostri assistiti tornano da noi a fare i volontari. Il nostro obiettivo è dare la speranza».
Come si fa a entrare in contatto con voi?
Si può fare da voi anche il servizio civile?
«Sì, assolutamente e per noi è una risorsa perché è integrato molto bene nella nostra organizzazione».
Invece chi ha bisogno di assistenza e vive in povertà come può farsi avanti?
«Rivolgendosi qui da noi in Santa Croce 5 a Milano. Abbiamo 15 appartamenti – 10 presso la nostra sede e gli altri dislocati in città – dove accogliamo le famiglie in povertà ed emergenza abitativa con l’obiettivo di trovare entro 18 mesi una casa, dando loro la tessera del nostro supermercato con scadenza semestrale. Ci preme sottolineare, nella nostra modalità di lavoro, una logica di rete. Uno dei grandi limiti che ho notato nel terzo settore, forse il più grande, è proprio l’incapacità di fare rete. C’è la volontà diffusa di mantenere il proprio campo e di non volersi integrare con le altre realtà: ognuno vuole essere il più bravo nel proprio settore».
E voi?
«Noi vogliamo essere i più bravi a rispondere ai bisogni delle persone. Siamo totalmente a-confessionali a-religiosi e a-politici, cioè abbiamo un’identità per cui, anche nel volontariato, siamo trasversali».
Quali sono le criticità che intravedete in questo nuovo anno?
«Sicuramente il tema abitativo e poi la gestione economica. Noi non facciamo pagare l’affitto, però costringiamo i nostri ospiti a versare una quota mensile di quello che guadagnano, così la teniamo in una cassaforte e gliela ridiamo quando troveranno la casa popolare. Perché se da noi si abituano a ricevere gratuitamente e spendono tutto, non avranno poi la mentalità del risparmio per affrontare il futuro».
Fate anche educazione finanziaria, dunque?
«Certo. Finanziaria, alimentare, scolastica… Vorremmo allargare questo tipo di attività, per noi è importante trovare altri spazi a Milano. E ce ne sono tanti, ma purtroppo gli affitti brevi hanno creato un disastro da questo punto di vista. Perché anche i piccoli locali che potevano essere anche utilizzati, mettendoli a disposizione delle soluzioni abitative assistenziali, oggi vengono utilizzati a quello scopo. Si affitta di tutto e il costo dell’abitazione è esploso».
Che cosa proponete?
«Di affidarci gli spazi vuoti, anche per due anni. Noi garantiamo che, quando i proprietari avranno di nuovo bisogno dell’appartamento, noi lo restituiremo libero. Non si farebbe il contratto d’affitto con la famiglia, ma con noi che siamo una realtà economicamente sostenibile. Quanti appartamenti ho visto rimanere vuoti per anni…».
Qual è l’ostacolo?
«La paura. Non ci si fida, si teme che poi dopo la gente non se ne vada. Poi c’è l’altro tema, ovvero l’emergenza alimentare. Siamo impegnati a spiegare che la lotta allo spreco permette anche di dare da mangiare a più persone. Noi abbiamo circa 60 referenze nei punti di distribuzione, che devono sempre esserci, molte di queste le dobbiamo comprare – nessuno le dona. Ne cito una per tutte: l’olio, prima della crescente fase inflazionistica spendevamo circa 30.000 euro per comprarlo, oggi 120.000».
Da dove prendete i soldi?
«Fino a qualche anno fa eravamo autosufficienti, grazie alla generosità di chi appartiene alla Fondazione, poi abbiamo deciso di uscire dai nostri confini e di fare il salto di qualità. Oggi la nostra parte fa fronte al 50% di quello che ci serve, per il resto abbiamo donazioni da aziende per esempio… come fanno Banca Mediolanum e tante altre».
Quanto c’è delle sue esperienze come Vice Chairman e COO di Warner Music International e come AD in Benetton Group nella gestione della Fondazione?
«Molto, vogliamo gestire la Fondazione come un’organizzazione privata. Quindi usiamo il tema dell’efficienza, anche se non sempre è semplice farlo capire a tutti. Partiamo dal presupposto che se non si ha un progetto di crescita si muore. Per questo dobbiamo stare attenti a due cose fondamentali: la sostenibilità, perché se non abbiamo i soldi mandiamo 4.000 persone che vivono in povertà in mezzo alla strada, quindi non possiamo permettercelo. Quindi è fondamentale fare passi attenti e non azzardati. E poi la modernità: nel nostro sistema di distribuzione monitoriamo tutti i consumi delle singole famiglie e questo ci consente di capire al meglio come aiutarle. E poi per noi è importante rendicontare e far vedere come utilizziamo i soldi. Io invito sempre tutti a venirci a trovare. E a partecipare a Le parole del pane festival a maggio, per toccare con mano quanto fa bene fare del bene». ©
📸 credit: @ISTAT
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