
Piccolo, in Borsa, non è bello. L’Egm, il mercato azionario delle piccole e medie imprese, non brilla per niente. Meno 18,9 per cento negli ultimi tre anni. E tanti, preoccupanti, delisting, che si trasformano spesso in un passaggio a soggetti esteri. Al contrario il Ftse Mib, l’indice che raggruppa le 40 principali società del listino principale ha messo a segno nello stesso periodo un più 68,1 per cento. Una differenza tra i due di circa 87 punti base. E se guardiamo a un periodo più lungo, cinque anni, le cose cambiano di poco: il Ftse Mib ha messo a segno un più 139,8 per cento, contro un deludente più 19,1 dell’Egm. Oltre 120 punti di differenza (tutti i dati sono al 15/5). Se poi osserviamo il numero di società quotate, vediamo che a fine 2024 erano 210, tante rispetto al mercato principale (109 esattamente tra Ftse Mib e Star), ma veramente poche in rapporto all’enorme numero di piccole e medie imprese italiane.
Gli operatori cominciano a interrogarsi sul perché l’Egm non sembra funzionare. Una prima ragione sembra collegata all’eccesso di mini imprese. “Ci sono forse troppe micro-società che si sono quotate all’Egm, e questo ha affossato le performance complessive, le cui rilevazioni trascurano l’evoluzione delle società migrate da Egm sul mercato principale. Bisogna portare società di “size” maggiore, favorendo l’aggregazione di imprese per formare campioni di settore”. A parlare è Simone Strocchi, fondatore di Electra Ventures e vero pioniere di tutti quei veicoli, dalle Spac alle prebooking companies, dai fondi Cornerstone e Ipo Club, che hanno accompagnato in questi anni all’Egm svariate imprese con storie di successo.
Strocchi tocca un punto dolente per le piccole e medie imprese. Trovare in Borsa, e non in banca o in fondi di private equity, i capitali necessari a crescere e ad espandersi è sempre stato il loro (teorico) sogno. Cedendo una percentuale di azioni proprie ma mantenendo saldamente la guida della società, cosa che difficilmente avviene quando i soldi arrivano dai fondi di private equity. Andando in Borsa, l’imprenditore ottiene soldi ma non sempre ha strategie concrete di sviluppo. L’Italia è piena di Pmi, che rappresentano più del 92 per cento del totale. Il listino dove la domanda (gli investitori) e l’offerta (le imprese) si possono teoricamente incontrare si chiama da qualche anno Egm (Euronext growth market). Prima che Euronext acquisisse Borsa italiana dagli inglesi del London Stock Exchange si chiamava Aim e prima ancora, quando la Borsa italiana era stand alone, Mac.
Numeri sconfortanti
Insomma, da svariati anni esiste questa via d’accesso ai mercato azionario per le Pmi. Ma che risultati ha dato? Scarsi, come si è visto prima. Sono in effetti i numeri di un disastro. Ovviamente non dobbiamo dimenticare che l’andamento dei mercati cambia nel corso del tempo e quindi le Pmi quotate all’Egm potrebbero un domani tornare a vivere momenti migliori. Ma è difficile che tutto cambi senza nuovi interventi.
Che le cose non vadano bene lo sanno tutti gli operatori che vivono quotidianamente questi problemi nel concreto e che hanno in mente possibili soluzioni. Intanto, comunque, non tutto è così negativo come appare: “Per capire e valutare l’Egm bisogna saperlo ‘leggere’, proprio per non arrivare a sintesi affrettate”, dice Simone Strocchi. Intanto, non ci si deve focalizzare solo sulle Pmi rimaste nell’Egm, ma anche su quelle che hanno fatto il salto in avanti: “Le società che dall’Egm sono passate al mercato principale negli ultimi dieci anni valgono, in termini aggregati, una market cap di oltre 12 miliardi (includendo anche le società poi delistate a valore di Opa e senza considerare Sesa, che fu la prima a migrare al mercato principale più di dieci anni fa). Dodici miliardi valgono più di una volta e mezza il market cap dell’Egm che a fine 2024 era di circa 8 miliardi”. Quindi l’Egm non è affatto da buttare, se viene visto come un “ginnasio” di formazione e sviluppo per le società migliori. “Da questi semplici dati sintetici – continua Strocchi – s’intuisce che la crescita di valore dell’Egm va ricercata anche nella proiezione delle società che sono passate al mercato principale”.
Gli addetti ai lavori segnalano quanto sarebbe importante per il sistema produttivo italiano un buon funzionamento dell’Egm. “L’Egm è un mercato rivoluzionario”, osserva Luigi Giannotta, direttore generale di Integrae Sim, che di mestiere fa lo sponsor per le Pmi che vogliono quotarsi e che è leader per numero di imprese accompagnate in questo mercato, ben 100 su 330 totali nel corso del tempo. “Le performance negative ci sono semplicemente perché non ci sono abbastanza investitori. Nel 2018-2020 c’erano i Pir che avevano convogliato il risparmio anche di piccoli investitori, grazie alle agevolazioni fiscali. Stavano funzionando benissimo anche non si sapeva bene cosa sarebbe successo dopo i primi cinque anni. La riforma, però, ha completamente affossato questo strumento”.
Dal lato investitori
In effetti, dal lato investitori i numeri sono sconfortanti. “Meno del 3 per cento degli investimenti dei Fondi pensione e delle assicurazioni finiscono in Pmi”, dice Giannotta. “Per contro, in Germania, Francia e Germania si arriva al 20 per cento circa, e addirittura al 50 per cento in Svezia. Del resto, se questi investitori istituzionali, che per definizione investono nel lungo termine, non puntano di più sul sistema produttivo italiano, sono guai». C’è poi il classico effetto del cane che si morde la coda: “Se il mercato Egm non diventa più efficiente – aggiunge Giannotta – anche gli imprenditori non sono spronati a utilizzarlo. Per fortuna adesso qualcosa si sta muovendo: c’è una Commissione bicamerale che si sta occupando di come fondi pensione e compagnie possono incrementare i loro investimenti in Pmi”.
Dal lato investitori, sostiene Strocchi, servirebbe anche “l’intervento di una serie di veicoli d’investimento granulari, capaci di operare senza l’ossessione per la liquidità giornaliera: fondi chiusi, holding, Eltif, private investor in public equity, Pir diretti, capitali dei rimpatriati che beneficiano di agi fiscali, eccetera”. Si tratta, in buona sostanza, secondo Strocchi, di fare sul mercato dell’Egm “quello che ‘fuori mercato’ fanno i fondi di private equity nazionali di più piccola dimensione rispetto a quelli nordeuropei e americani, ovvero combinare tra loro imprese determinando realtà di dimensione maggiore da vendere con ritorni significativi a fondi di private equity più grandi (non nazionali); in questo modo l’Egm potrebbe avviare un volano di sviluppo sistemico, favorendo la formazione di campioni di settore, aggregando tra loro Pmi eccellenti che possano proseguire il loro sviluppo trasferendosi, una volta consolidate in società di più grandi dimensioni, sul mercato principale, preservando governance e sensibilità italiani a beneficio della nostra collettività”. Per far questo, servono “investitori granulari competenti e pazienti per sostenere e far crescere (favorendo operazioni di M&A e business combination) campioni di industria, da passare poi al mercato principale dove operano abitualmente investitori di maggiore dimensione più attenti alla liquidità giornaliera”.
Dall’estero c’è chi approfitta delle basse quotazioni
Intanto qualcun altro sta facendo affari con le piccole e medie imprese quotate all’Egm. “Molte di queste – ricorda Strocchi – sono sottovalutate rispetto ai fondamentali (e anche rispetto alla generazione di cassa sulla capitalizzazione). La successione di delisting conseguenti alle Opa lanciate dimostra che c’è molto valore e anche al lordo del ‘premio Opa’, chi ritira la società dal listino raggiunge poi ritorni a multipli dell’investito in pochi anni”.
Si tratta di un’emergenza sistemica: “Negli ultimi 10 anni – continua Strocchi – ben il 43% delle società delistate dai listini Italiani sono passate in governance straniera immediatamente, molte altre dopo un periodo di transitoria continuità di governance in mani italiana. Non possiamo permetterci di avviare una de-industrializzazione del nostro paese, di essere considerati un vivaio di caccia da compratori stranieri che estraggono capacità di performance dalla condivisione del mercato per consolidarla in agglomerati non nazionali, scavando fossati incolmabili tra i ricchi figli di chi ha venduto l’impresa agli stranieri e i poveri figli di chi in quelle aziende ci lavorava”.
Molti tentativi infruttuosi di riforma
Tanti progetti e suggerimenti, ma c’è anche chi è scettico – sulla base della sua lunga esperienza – sul fatto che qualcosa possa cambiare. “Nel corso del tempo – racconta Salvatore Bragantini, tra le altre cose ex commissario Consob, ex ad di Centrobanca ed ex presidente di Pro Mac Spa, società che si occupava della promozione del Mercato alternativo dei Capitali (Mac), l’antesignano dell’Egm – tutti i governi hanno provato a cambiare qualcosa, presentandosi sempre come i primi a volerlo fare. Ma la verità è che ogni tentativo soggiace alla fine a una somma di resistenze”. C’è ad esempio, nota Bragantini, la resistenza del sistema bancario che dovrebbe indicare alle imprese migliori la via della quotazione ma non lo fa, magari per non perdere un buon cliente. “C’è poi la riluttanza degli imprenditori, ai quali l’assoggettamento alle regole della quotazione va stretto e che temono sempre che qualcuno possa soffiargli l’impresa”. Sono mancati anche, finora, gli investitori in questo tipo di mercato: “La riluttanza dei fondi pensione, ad esempio, deriva il fatto che non hanno molta voglia di rischiare e preferiscono comprare qualche Btp in più – scelta che nessuno criticherà mai – piuttosto che quote illiquide di piccole e medie aziende. Come si vede, c’è una somma di riluttanze difficile da scalfire”.
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