28 Giugno 2025
Come risvegliare i piccoli comuni dal loro coma istituzionale


I piccoli comuni italiani sono a un bivio, serve una riforma per ridare loro la forza di guardare al futuro: possono diventare un fattore di progresso, di tutela del territorio, anche un laboratorio di un nuovo sviluppo green. Ma, per farlo, devono uscire dallo stato di coma istituzionale in cui sono stati lasciati da anni. L’allarme è il cuore dell’ultima edizione del Rapporto Montagne Italia 2025, realizzato da Uncem e Fondazione Montagne Italia.

L’Uncem è l’Unione nazionale comuni, comunità ed enti montani e raccoglie le esigenze e rappresenta oltre tremilaquattrocento comuni montani – quasi la metà del totale italiano – che occupano il quarantotto virgola otto per cento del territorio nazionale e ospitano circa nove milioni di abitanti, ossia il quindici virgola tre per cento della popolazione italiana.

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Ma il problema dei piccoli comuni non riguarda solo la montagna. Se sono loro a parlarne, è solo perché rappresentano la parte più organizzata di questa platea istituzionale. Sono anni che i comuni montani combattono con i problemi di spopolamento e di marginalità economica, e per questo sono stati i primi a iniziare a ragionare sul problema. Che è però un problema che è da un bel po’ sceso dai monti ed è arrivato anche in pianura.

In Italia, il sedici per cento della popolazione vive in comuni sotto i cinquemila abitanti. Il trentacinque per cento vive in centri tra i cinquemila e i ventimila. Assieme fanno il cinquantuno per cento degli italiani. In città sopra il milione di abitanti vive meno del dieci per cento; se abbassiamo l’asticella a duecentocinquantamila abitanti, troviamo appena un ulteriore cinque per cento. Siamo il Paese dei campanili, è vero, ma il problema non sono i numeri, ma la governance.

Spiega Marco Bussone, presidente di Uncem, che ha presentato il rapporto a Roma martedì scorso: «In Italia i comuni sono ottomila. In Germania sono ventiquattromila; in Francia ancora di più: trentaseimila. Ma le cose funzionano. La Francia ci è arrivata con una ristrutturazione istituzionale importante. Hanno dimezzato il numero delle regioni, da ventidue a dieci, ma hanno lasciato il primo livello istituzionale, quello dei comuni, intatto. Ma non hanno lasciato tutto com’era. Hanno creato le Communauté de communes, che svolgono funzioni comuni per un intero territorio: bilancio, urbanistica.

In Italia, prima abbiamo preso la strada opposta: dal 2007, per esempio, molte regioni hanno iniziato a smantellare le Comunità montane, che sono scese da trecentocinquanta alle attuali, poco più di una sessantina, concentrate in Lombardia, Lazio, Campania e Sardegna. Ora la tendenza si sta invertendo: alcune regioni, come Piemonte, Veneto, Friuli, Emilia-Romagna, hanno creato delle nuove Unioni montane. Allargano lo sguardo anche oltre la montagna. Sono attive oggi in Italia circa quattrocento aggregazioni intercomunali, dalle più piccole, che raggruppano quattro o cinque comuni, alle maggiori, che ne riuniscono anche una cinquantina. Ma senza un quadro istituzionale e senza una strategia che provenga dal Parlamento o dai governi. E questo porta a esiti paradossali.

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Il maggiore? I comuni hanno bloccato le assunzioni, hanno tagliato i costi per il personale, ma, nel frattempo, hanno fatto lievitare senza alcun controllo la spesa per le consulenze. In Piemonte, ci sono comuni di quaranta o cinquanta abitanti dove le consulenze proliferano. Viene da pensare che la debolezza dei comuni senza personale giovi a qualcuno.

Le opportunità ci sono, i soldi potrebbero esserci. Anche se il Pnrr è stata un’occasione sprecata proprio perché in Italia non si è ripensato il disegno istituzionale dei territori. E così i fondi del Pnrr sono stati proposti ai singoli comuni, che ne hanno fatto un’ultima questione di campanile, presentando progetti in concorrenza gli uni con gli altri, invece di mettere assieme le forze.

«Con un’unica eccezione – spiega ancora Marco Bussone – quella costituita dalle Green Community, che fanno parte della nostra legislazione dal 2015, promosse da Uncem proprio per favorire la nascita di aggregazioni intercomunali per portare avanti i temi della transizione ambientale. Grazie a loro, il Pnrr ha messo a disposizione centotrentacinque milioni di euro, su cui sono stati presentati duecento progetti, ciascuno riguardante un unico ambito territoriale. Tutte assieme hanno mobilitato millecinquecento comuni».

E le Green Community sono il centro della strategia nazionale proposta da Uncem, e non certo limitata ai soli comuni montani. È una visione che non si limita alla sostenibilità ambientale: punta infatti a promuovere alleanze territoriali tra enti pubblici, società civile e imprese per trasformare le risorse locali (foreste, acqua, energia rinnovabile) in motori di sviluppo sostenibile. Il cambio di prospettiva è da sottolineare. Il territorio montano non è più visto solo come oggetto di tutela, ma come soggetto attivo, capace di produrre economia verde e servizi ecosistemici.

L’obiettivo è anche di far rientrare le Green Community all’interno delle Snai, la Strategia nazionale per le aree interne, che dal 2023 è stata posta sotto il Dipartimento per le Politiche di coesione e per il Sud, affidato al ministro Tommaso Foti, assieme agli Affari europei e, appunto, al Pnrr. La parola d’ordine, insomma, è: ricostruire un tessuto istituzionale per creare governance locali solide e capaci di attrarre e gestire risorse.

Il Rapporto individua i principali punti di attacco del problema. Intanto, i fondi europei. Sulla programmazione 2021–2027 dei fondi europei qualcosa si può ancora fare, ma bisogna soprattutto attrezzarsi in vista del nuovo piano 2028–2034. Nell’immediato, c’è il digital divide, che è ancora un ostacolo imponente. I comuni montani devono diventare protagonisti dell’innervamento digitale, sfruttando il Piano Banda Ultra Larga, il Piano 5G e il Piano Italia 1 Giga.

Anche perché la tecnologia non è solo infrastruttura: è anche leva per nuovi modelli di lavoro e imprenditorialità. Il lavoro da remoto, le cooperative di comunità, l’agricoltura di precisione, il turismo esperienziale sono ambiti dove i giovani professionisti possono trovare spazio, se le condizioni lo permettono. La montagna può tornare ad attrarre cervelli e braccia, ma solo se il capitale umano è messo in condizione di restare.

Un altro grande capitolo di opportunità è rappresentato dalle filiere produttive locali, che il Rapporto definisce in maniera puntuale. L’economia del bosco, la produzione di energia da fonti rinnovabili, la gestione sostenibile dell’acqua, la valorizzazione del patrimonio agroalimentare, il turismo slow: sono tutte leve già presenti sul territorio, ma ancora sottoutilizzate. Anche in questo caso, le Green Community possono diventare il contenitore strategico per queste filiere, mobilitando anche l’industria green tech nazionale.

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Ad esempio, il legno locale può essere una risorsa per la bioedilizia o la filiera corta della manifattura, riducendo l’import di materia prima. Tuttavia, tutto questo richiede imprese, cooperative, consorzi pronti a investire e territori che sappiano coordinare. Un esempio emblematico: la filiera del legno locale. Ancora oggi importiamo materiali dall’estero, mentre le nostre foreste crescono e si abbandonano. Riattivare queste filiere significa creare occupazione, tutelare il territorio, generare valore a chilometro zero.

E tornano alla memoria le immagini della strage di abeti rossi nelle Dolomiti nel 2018 a opera della tempesta Vaia: milioni di metri cubi di legname che sono stati dirottati in Austria, da cui li abbiamo poi reimportati come prodotti, perché non c’erano nel Nord-Est aziende in grado di lavorare quelle quantità di materia prima pregiata.

Saranno sufficienti questi primi interventi a invertire la rotta? Il Rapporto è chiaro: il declino demografico è un’emergenza che si è cronicizzata. Ma ci sono segnali di speranza. Alcuni comuni sperimentano forme di neopopolamento, grazie a progetti di accoglienza, ritorni di emigrati o nuovi residenti attratti da qualità della vita e nuove opportunità. Tuttavia, questi segnali sono fragili e rischiano di restare episodi isolati.

La condizione perché si trasformino in tendenza è che vi sia una reale possibilità di procurarsi da vivere in montagna, come sottolinea il Rapporto. Non si tratta solo di offrire case a basso costo o incentivi. Serve un ecosistema che garantisca servizi minimi (sanità, scuola, mobilità), connessione digitale, accesso a lavoro qualificato e supporto all’impresa. In questa direzione, il concetto di Lep (Livelli essenziali delle prestazioni) specifici per la montagna è una proposta chiave, ancora da attuare.



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