
- Tra precarietà, carenza di servizi e nuovi modelli culturali, le giovani coppie rinunciano ai figli. Un freno anche per la crescita economica del Paese.
- Diventare genitori è la seconda causa di povertà in Italia, dopo la perdita del lavoro. Il divario tra progetti familiari e realtà si lega a motivi economici, precarietà lavorativa, carenza di servizi per l’infanzia e difficoltà abitative, che costringono molte coppie a rimandare o addirittura a rinunciare a un figlio.
- Cambiare il Paese per non cambiare Paese è la sfida futura e comune da portare avanti, magari ispirandosi ai modelli europei di conciliazione vita-lavoro, per un effettivo cambio di rotta.
Il dossier 2025 della Fondazione per la natalità, realizzato in collaborazione con Istat, riporta che le nascite nel 2024 sono state 370 mila, un numero così esiguo da eguagliare il minimo storico dall’Unità d’Italia. Passando dai numeri alla realtà, si evince che ovviamente non si tratta solo di un problema statistico ma che la crisi demografica che sta attraversando l’Italia sta seriamente mettendo a repentaglio il futuro economico e sociale di un intero Paese.
Eppure, sempre secondo il report presentato lo scorso 3 giugno alla Luiss “Cambiare Paese o cambiare il Paese. Dossier 2025: dai numeri alla realtà”, gli italiani desiderano un figlio (o anche più di uno) ma precarietà, carenza di servizi e difficoltà abitative costringono le giovani coppie a rinunciare ad averlo. A questo si aggiungono anche nuovi modelli culturali, si pensi ad esempio al fenomeno childfree e alle coppie dink, che contribuiscono a mettere un freno alla crescita economica del Paese.
Fino a quando diventare genitori rappresenterà la seconda causa di povertà in Italia, dopo la perdita del lavoro, come afferma Gigi De Palo, Presidente della Fondazione per la Natalità, “sarà inevitabile continuare ad assistere al calo delle nascite e all’aumento della frustrazione in questo Paese”.
Diventare genitori in Italia: una scelta sempre più complessa
In altre parole, avere un figlio sta diventando un lusso che sempre meno italiani si possono permettere. Se però, nonostante il tasso di natalità così basso, ben il 69,4% dei ragazzi intervistati, di età compresa tra gli 11 e i 19 anni, afferma di voler avere figli nel corso della propria vita, cosa interferisce tra questo desiderio iniziale e l’effettiva realtà?
Senza dubbio si tratta di un meccanismo che a un certo punto si inceppa, nel lungo periodo. Gli adolescenti che sognano la famiglia e i figli si scontrano, da adulti, con la precarietà del lavoro e redditi insufficienti, che li fanno desistere dai buoni propositi.
Per imprenditori e liberi professionisti, diventare genitori è una sfida ancor più ardua rispetto ad altri lavoratori. Chi gestisce un’attività autonoma o una microimpresa deve confrontarsi con ostacoli economici, fiscali e organizzativi che rendono la genitorialità un lusso sempre più difficile da permettersi. Il costo della genitorialità, infatti, grava in modo sproporzionato su chi non può contare su ferie pagate, indennità strutturate o congedi retribuiti.
L’assenza di tutele in caso di maternità o paternità rende difficile pianificare la nascita di un figlio. A differenza dei dipendenti, molti liberi professionisti non beneficiano di sgravi fiscali mirati o di sostegni familiari continuativi. Alcune delle misure attuali, come l’assegno unico, risultano spesso insufficienti per coprire il costo reale del mantenimento di un figlio, specie per chi ha un’attività da mandare avanti senza pause.
Carenza di servizi per l’infanzia e impatto sulla produttività
La carenza di servizi per l’infanzia in Italia, come asili nido pubblici a basso costo, colpisce in modo particolare chi non ha orari fissi o lavora nei fine settimana, come molti commercianti, ristoratori, freelance. Senza un supporto strutturato, è difficile conciliare famiglia e lavoro autonomo.
Per chi è alla guida di un’attività, fermarsi significa perdere fatturato, clienti e opportunità. La mancanza di coperture adeguate durante i periodi di maternità e paternità si traduce spesso in un carico insostenibile, soprattutto per le madri imprenditrici.
In Italia, le difficoltà legate alla genitorialità ricadono in modo sproporzionato sulle donne, e questo vale ancor di più per le lavoratrici autonome, imprenditrici e libere professioniste. La maternità resta una delle principali cause di interruzione o rallentamento della carriera femminile. A differenza delle lavoratrici dipendenti, le madri che lavorano in proprio non sempre possono permettersi di fermarsi, né da un punto di vista economico né organizzativo.
L’Italia è indietro nella conciliazione tra famiglia e lavoro: il parere dell’esperta
Il work-life balance, vale a dire l’equilibrio tra vita privata e lavorativa, è una delle sfide più difficili da superare per le donne che decidono di avere figli. In un contesto in cui mancano servizi per l’infanzia adeguati, come nidi accessibili, orari flessibili e assistenza territoriale, molte madri si trovano a dover scegliere tra carriera e maternità.
A peggiorare il quadro, si aggiungono la mancanza di congedi retribuiti per le lavoratrici autonome e l’assenza di un sistema di sostegno alla maternità che tenga conto delle specificità del lavoro indipendente. Questo porta molte donne a posticipare o rinunciare del tutto alla genitorialità, contribuendo al crollo della natalità in Italia.
L’Italia è ancora indietro nella conciliazione tra famiglia e lavoro, non solo in termini di servizi, ma anche di cultura aziendale e riconoscimento del valore del tempo di cura. Per cambiare rotta, servono riforme istituzionali, sostegni fiscali alle famiglie con figli, e una nuova visione del lavoro autonomo che non penalizzi chi sceglie di diventare madre.
L’intervista di Partitaiva.it su questo tema coinvolge Valentina Cherubini, consulente di worklife balance abilitata Certificazione Family Audit, che ci parla dell’importanza di fare rete, della necessità di un intervento strutturale da parte delle istituzioni sul territorio e del ruolo delle aziende nel favorire oggi concretamente la conciliazione vita-lavoro. Come può un comune essere amico della famiglia? Quali sono le politiche familiari che si possono attivare sul territorio?
“Lo possono fare mettendo insieme associazioni, rappresentanze di professionisti e il mondo sport, scuola, salute al fine di cogliere dal basso le esigenze delle famiglie, agevolando tempi di vita e supporti economici, ragionando ad esempio sull’Isee per renderlo più inclusivo, sui servizi sanitari e gli orari di disponibilità, sulle rette delle scuole da armonizzare con le reali esigenze delle famiglie e su servizi effettivamente tagliati su misura delle necessità mappate.”
“Il punto fondamentale sta innanzitutto nel creare cultura intorno a questa tematica, perché guardiamo sempre alle misure meno strutturate come i vari bonus (bebè, asilo, assunzioni) ma che alla lunga non hanno alcun valore strutturale. Al di là del valore temporaneo di tali misure, è indispensabile invece andare a lavorare su interventi sistemici, come i congedi parentali al padre ad esempio, la costruzione di un welfare sulla base dei modelli del nord Europa, mentre l’Italia a oggi è fanalino di coda.”
L’emergenza è già in atto infatti, l’Italia sta attraversando una grave crisi demografica e bisognerebbe guardare subito e ora, al lungo periodo.
“L’Italia non fa che arretrare da questo punto di vista, ormai ci hanno superato sul campo anche Paesi che storicamente sono stati sempre dietro di noi come Portogallo e Spagna. Sono Paesi che hanno ragionato sul problema demografia, cercando supporti trasversali da tutti gli istituti e tutte le realtà, in modo strategico e dove la famiglia è diventata il core.”
“E di conseguenza tutte le politiche regionali, comunali, nazionali tengono conto della famiglia “al centro”, che diventa appunto l’elemento centrale del ragionamento, attorno al quale si sviluppano le azioni (basti pensare allo sportello famiglia, che andrebbe attivato ovunque, quale riferimento per ogni esigenza familiare). Con il progetto “Comune Amico della Famiglia” ad esempio teniamo conto non solo degli indici economici ma anche di indicatori del benessere come il Bes e attivando tavoli di progettazione con il territorio. Sulla base di questi dati si sviluppano azioni mirate e concrete in sostegno dei nuclei familiari.”
Qual è il ruolo dell’azienda nei confronti del lavoratore dipendenti così come dei collaboratori esterni e dei consulenti?
“Partiamo dal presupposto che non esiste (e non può esistere) parità di genere se prima non c’è consapevolezza sulla conciliazione vita-lavoro, che in primis riguarda il lavoro “non retribuito”. Si tratta di una catena, la cui pietra miliare è la formazione di quella cultura che manca intorno all’argomento e che basicamente ancora si traduce nell’associazione mentale donna/famiglia, uomo/carriera. Il primo riflesso lo cogliamo già da come si educano le bambine, che crescono in un auto-condizionamento che le limita, non le fa ambire a carriere Stem (poi più retribuite) o di alto livello comunque, ma direttamente o indirettamente orientate verso lavori in cui prevale la sicurezza più che l’ambizione ed in grado di aiutarle nella conciliazione con la gestione della famiglia.”
“In pratica a dare più spazio al loro lavoro non retribuito. In una giornata tipo, 8 ore le dedichiamo al sonno e altrettante al lavoro, ma le restanti otto, soprattutto in alcune fasi della vita, non sempre sono sufficienti per svolgere il lavoro non retribuito di cura dei figli e della casa, se non ragioniamo in logica di bilanciamento del care giving. E la conseguenza è l’erosione del lavoro retribuito (in termini di ore ma anche in termini di potenziale sviluppo di carriera), per i dipendenti ma anche per libere/i professioniste/ care giving che, nonostante la partita IVA, si ritrovano a lavorare part time (il che si traduce in minore retribuzione ma anche minore contribuzione ai fini pensionistici).”
“In primis dunque dobbiamo essere noi stesse satelliti di cambiamento in famiglia, con gli amici, nella comunità, e assumere la giusta consapevolezza per invertire il trend. Formazione e cultura in tal senso restano i cardini di fondo a cui fare riferimento nella società ma anche nel mondo lavoro. Ma poi per realizzare pari opportunità, è indispensabile seguire dei criteri di selezione oggettivi, in base alla corrispondenza tra ruolo e competenze, affinché ci sia davvero equità di giudizio. E lo stesso vale per i percorsi di crescita, di passaggio al livello superiore delle mansioni e della loro valutazione trasparente in base a una misurazione non soggettiva ma preparata e definita con criteri predefiniti ed equi.”
Quindi più formazione per migliorare il bilanciamento dei carichi familiari e più servizi e supporto per i neo-genitori. E per quanto riguarda il lavoro flessibile? Lo smart working o comunque il lavoro da remoto ha migliorato la conciliazione o ha solo spostato il problema?
“Lo smart working è una misura vincente per un’organizzazione che voglia orientarsi verso il benessere interno portando anche maggiore redditività: la vera chiave è sviluppare un modello organizzativo per obiettivi che quindi permetta la reale flessibilità ma contemporanea opportunità per tutti di raggiungere risultati più performanti.”
“Da questo punto di vista bisogna verificare innanzitutto l’applicabilità del modello, ad esempio parlando di smart working, perché solo le aziende più flessibili si concentrano sul Cosa invece che sul Come, quindi sui risultati e il raggiungimento dell’obiettivo, invece che su tempi e modalità di lavoro (come avviene appunto per i liberi professionisti). Ma a ogni modo, quando si tratta di valutare ad esempio l’opportunità di concedere il part time lavorando da casa, a una lavoratrice con figli piccoli, non sempre è un vantaggio, perché una reale gestione efficiente diventa improbabile.”
“E quindi, la conciliazione non è avvantaggiata dal solo lavoro da remoto senza logica di mainstreaming. Rischiamo in effetti di spostare il problema.
Una logica multillivello che parte dalla consapevolezza organizzativa verso una focalizzazione alla flessibilità e agli obiettivi, analisi trasparente di ruoli, retribuzioni e competenze per permettere accessi neutrali (indipendentemente dal genere) all’azienda, sia ai percorsi di crescita, sia alle premialità con una chiara comunicazione interna ed esterna su questi temi.
In connessione poi sempre al territorio, quel che resta cruciale è la presenza di aiuti significativi sul territorio, per quanto riguarda il numero di strutture disponibili, rette da pagare, contributi per centri estivi e asili nido, il prolungamento del calendario scolastico, degli orari dei servizi. Senza dimenticare la centralità dell’associazionismo, del fare rete tra donne, per aumentare sempre più la sensibilizzazione e la consapevolezza in materia, che spesso mancano a noi per prime.”
Il ruolo del mercato immobiliare e dell’accesso al credito
Anche l’accesso al mutuo o al credito al consumo è più complesso per chi lavora con partita IVA. Le banche chiedono garanzie che molti professionisti non possono fornire, rendendo difficile conquistare un’autonomia abitativa stabile, che invece rappresenta un requisito chiave per pensare alla genitorialità.
Chi lavora in proprio tende a posticipare l’idea di famiglia finché l’attività non è stabilizzata. La maternità (o paternità) viene vista come un traguardo da raggiungere solo dopo aver costruito una carriera solida, il che avviene spesso oltre i 35 anni, da realizzare solo quando si può delegare parte del lavoro, assumere collaboratori o ridurre il carico personale. Non tutti riescono ad arrivarci.
Cosa può fare il sistema Paese: modelli europei di conciliazione vita-lavoro
L’Italia rischia di perdere una generazione di piccoli imprenditori e liberi professionisti che rinunciano a diventare genitori per non compromettere la sopravvivenza delle loro attività. Questo non solo aggrava la crisi demografica, ma mina le basi del sistema produttivo e della crescita del PIL.
Occorrono politiche fiscali e previdenziali pensate per chi lavora in proprio: congedi retribuiti anche per gli autonomi, agevolazioni per le famiglie imprenditoriali, bonus baby-sitter compatibili con orari flessibili, incentivi per l’accesso a nidi convenzionati.
In diversi Paesi europei, la conciliazione tra vita familiare e lavorativa è favorita da politiche strutturali capaci di sostenere non solo i lavoratori dipendenti, ma anche imprenditori, freelance e liberi professionisti. L’Italia, invece, rimane indietro, con un sistema ancora sbilanciato e frammentario.
La Francia investe stabilmente oltre l’1,3% del PIL in politiche per la famiglia (contro lo 0,9% dell’Italia) e offre una rete capillare di asili nido pubblici e convenzionati, con tariffe proporzionate al reddito. Il sistema di congedi parentali è flessibile e utilizzabile da entrambi i genitori, anche part-time, favorendo la ripartizione del carico familiare. Queste misure hanno permesso alla Francia di mantenere una natalità più stabile (1,79 figli per donna nel 2023).
In Svezia, Norvegia e Danimarca, il congedo parentale è equamente diviso tra i due genitori, con incentivi economici se entrambi lo utilizzano. I sussidi alla maternità e paternità non discriminano i lavoratori autonomi, e il supporto statale è progettato per garantire che nessun bambino sia un lusso. L’alta partecipazione femminile al mercato del lavoro è il risultato di un welfare familiare efficace e inclusivo.
In Germania, oltre a un sistema di congedi parentali fino a 14 mesi, esiste un Elterngeld Plus, un’indennità mensile per chi riduce l’orario di lavoro per crescere i figli, accessibile anche agli autonomi. I Kita (nidi) sono pubblici, numerosi e altamente sovvenzionati. Questo approccio ha aumentato la natalità e ridotto l’abbandono lavorativo femminile.
Cambiare il Paese, per non cambiare Paese
Alla luce di queste considerazioni, appare evidente dunque che il binomio diventare genitori e povertà in Italia non riguarda solo disoccupati o lavoratori precari. Anche chi genera valore con il proprio lavoro autonomo affronta ostacoli enormi per costruire una famiglia. Se non si interviene con misure concrete e inclusive, l’Italia continuerà a perdere non solo figli, ma anche il futuro della sua imprenditorialità diffusa.
Il Dossier 2025 non è solo un documento tecnico, ma un richiamo collettivo alla responsabilità. Senza un cambio di rotta deciso, il declino demografico non solo continuerà, ma diventerà strutturale. La denatalità non è un destino: è una sfida.
E si può vincere solo se tutti, dalle istituzioni alle imprese, dalle università ai cittadini, si assumono il compito di trasformare i numeri per una migliore realtà. Di questo si parlerà nella prossima edizione degli Stati Generali della Natalità dal titolo “Cambiare Paese o cambiare il Paese?”, che si terrà il 27 e 28 novembre 2025 presso l’Auditorium della Conciliazione a Roma.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link