
Dalle batterie ai semiconduttori, dalla difesa all’energia: l’Europa riscrive la grammatica economica e torna a pianificare. La Francia investe, la Germania protegge, Bruxelles legittima. Ma è l’Italia il laboratorio più avanzato: partecipazioni, golden power, fondi sovrani. Un’inchiesta sul nuovo interventismo europeo e i rischi che corre il mercato unico.
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La svolta: fine del liberismo, inizio del controllo
C’è un’Europa prima e dopo il 2020. Dopo decenni in cui il mercato era considerato il miglior regolatore possibile, oggi la retorica è ribaltata. L’Unione Europea parla apertamente di “autonomia strategica”, “sovranità industriale”, “resilienza delle filiere”. Il lessico è cambiato, la sostanza anche: è lo Stato – non più il capitale privato – a orientare l’economia reale, decidendo cosa produrre, dove investire e quali settori difendere.
Quello che fino a pochi anni fa era tacciato di “assistenzialismo” oggi è politica economica ortodossa. Dalla Germania alla Francia, dall’Italia alla Spagna, ogni governo costruisce il proprio arsenale di interventi: fondi sovrani, norme protezionistiche, partecipazioni pubbliche, salvataggi mirati, piani di reshoring, strumenti anti-scalata, poteri di veto sugli investimenti. E Bruxelles, invece di frenare, accompagna.
“Il mercato da solo non garantisce né sicurezza né competitività. Servono scelte politiche forti”, ha dichiarato Thierry Breton, commissario europeo al Mercato Interno, in un’intervista a Les Echos.
L’obiettivo comune è rompere la dipendenza da attori extraeuropei, soprattutto nei settori critici. Dalle terre rare ai microchip, dalla cybersecurity alle tecnologie verdi, il principio che si afferma è semplice: l’Europa deve saper produrre da sola.
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Timeline – Il ritorno dello Stato in Europa (2019–2025)
2019 – Macron introduce l’idea di “sovranismo europeo” nella Sorbona
2020 – La pandemia spinge alla sospensione del Patto di stabilità e al ritorno della spesa pubblica massiva
2021 – Debutta il Recovery Fund e il Next Generation EU: nasce il PNRR italiano
2022 – L’invasione dell’Ucraina rilancia il concetto di sicurezza economica e supply chain
2023 – Bruxelles lancia il “Temporary Crisis and Transition Framework”
2024 – Francia e Germania monopolizzano gli aiuti di Stato; emergono le prime tensioni interne
2025 – L’Ue impone dazi sulle auto elettriche cinesi; esplodono fondi sovrani e golden power
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Berlino e Parigi: chi può spendere comanda
Francia e Germania hanno preso il comando. Forti di bilanci più solidi e margini fiscali ampi, sono diventati i registi della nuova economia guidata dallo Stato. La Germania ha nazionalizzato il 99% di Uniper per oltre 13 miliardi, salvato Siemens Energy, sostenuto Deutsche Bahn con 12 miliardi e investito altri 6 miliardi nella produzione di idrogeno verde, come risposta al caro energia e alla dipendenza dal gas russo.
La Francia ha risposto centralizzando la produzione e la distribuzione energetica sotto il controllo statale di EDF, ha rilanciato la banca pubblica d’investimento Bpifrance (che nel 2024 ha mobilitato oltre 22 miliardi) e ha stanziato 10 miliardi in un “Fonds pour les champions industriels européens”, volto a rafforzare filiere continentali nei settori della mobilità elettrica, dell’aerospazio e dell’IA.
“La sovranità industriale è il primo pilastro della nostra libertà”, ha affermato il ministro francese Bruno Le Maire al Forum OCSE di Parigi (giugno 2025).
I nuovi campioni nazionali – da Thales a Alstom, da Renault a Atos – operano con il supporto diretto dell’Eliseo, che utilizza ogni leva diplomatica per orientare le alleanze industriali in chiave francese.
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I fondi sovrani europei: chi investe davvero?
I fondi controllati dal settore pubblico hanno una dotazione stimata di 22 miliardi di euro in Francia (Bpifrance, fondo attivo in 400 imprese. Forte focus su deep tech); 30 miliardi di euro in Germania (Wirtschaftsstabilisierungsfonds, usato per salvare Uniper, Siemens Energy e Bahn); 40 miliardi di euro in Italia; 2 miliardi in Spagna (SEPI, limitato a settori tradizionali come energie e difesa).
L’Italia è la più dotata sulla carta, ma la più lenta a investire. Mancano rapidità decisionale, selezione dei target e una strategia di impatto a medio termine.
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Bruxelles: il mercato unico sotto deroga
La Commissione europea, che per decenni ha fatto del mercato interno la sua bandiera, ha scelto di accompagnare – più che frenare – questa svolta. Il meccanismo centrale si chiama Temporary Crisis and Transition Framework: una deroga alle regole sugli aiuti di Stato, varata in seguito all’aggressione russa all’Ucraina e poi estesa fino al 2025.
Risultato: oltre 900 miliardi di euro di aiuti autorizzati dagli Stati membri in due anni. Ma con una distribuzione profondamente asimmetrica: la Germania ha assorbito da sola circa il 30%, la Francia il 23%. Tutti gli altri Paesi, Italia inclusa, si spartiscono il resto.
“Non possiamo sacrificare la concorrenza sull’altare della sicurezza strategica. Il rischio è che il mercato unico si frantumi in 27 politiche industriali nazionali”, ha dichiarato Margrethe Vestager, commissaria Ue alla Concorrenza.
Eppure, Bruxelles ha approvato con sorprendente flessibilità:
• 1,8 miliardi per Renault e Stellantis (batterie),
• 800 milioni a Bosch per i semiconduttori,
• una deroga triennale per Airbus per sviluppare un nuovo modello di aereo regionale.
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L’Italia capofila del nuovo statalismo
In questo nuovo scenario è l’Italia a rappresentare il caso più emblematico. Pur avendo meno risorse rispetto a Berlino o Parigi, ha costruito una macchina pubblica capillare. Lo Stato italiano controlla direttamente 31 società per azioni (tra cui Eni, Enel, Leonardo, Terna, Poste, RFI) e partecipa in 39 ulteriori realtà.
Il golden power, introdotto nel 2012, è oggi usato con continuità e frequenza: 74 interventi nel 2024, record europeo. I settori: telecomunicazioni, difesa, spazio, energia, agroalimentare e persino cloud e IA.
Tra i casi più noti:
• blocco dell’acquisizione di Robox (robotica) da parte di un fondo cinese,
• veto alla cessione dei cavi sottomarini Sparkle a Iliad,
• stop al controllo estero su un’azienda biotech lombarda.
“Il golden power è diventato uno strumento di politica industriale più che di difesa nazionale”, denuncia il giurista Alberto Gambino. “Serve un controllo parlamentare trasparente”.
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I nuovi strumenti: reshoring, partecipazioni e investimenti
Negli ultimi due anni il governo italiano ha mobilitato una serie di strumenti nuovi:
• il Fondo per le Filiere Critiche da 8 miliardi, gestito da CDP e Invitalia;
• il programma ReMade in Italy, per favorire il ritorno di imprese manifatturiere in settori strategici;
• gli interventi diretti in aziende in crisi o in filiere sensibili (come nel caso Acciaierie d’Italia e NetCo TIM);
• la partecipazione attiva in progetti IPCEI europei.
Ma il rischio è la sovrapposizione. Troppe regie, troppi strumenti frammentati. “Senza una direzione unica, si rischia di moltiplicare la spesa e disperdere l’efficacia”, denuncia il Centro Studi Confindustria nel Rapporto Industria 2025.
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I progetti comuni europei: cooperazione o nazionalismo mascherato?
Bruxelles ha promosso i cosiddetti IPCEI – Important Projects of Common European Interest – per finanziare con fondi pubblici progetti strategici in settori ritenuti critici. Al 2025 sono attivi IPCEI su:
• batterie (BMW, Northvolt, Stellantis),
• microelettronica (STMicroelectronics, GlobalFoundries),
• cloud e intelligenza artificiale (GAIA-X, Aleph Alpha),
• idrogeno verde (Plug Power, Eni, Air Liquide).
Ma Francia e Germania continuano a dominare: ottengono i ruoli guida nei consorzi, selezionano i partner, orientano le tecnologie. L’Italia, pur presente, è spesso ai margini.
“Abbiamo le competenze, ma non la capacità politica di imporre la nostra agenda”, osserva Lucrezia Reichlin, economista e membro del comitato scientifico di Bruegel.
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Autonomia o protezionismo?
Il confine tra legittima sovranità economica e nuovo protezionismo si fa sempre più labile. Nel 2025 l’Ue ha imposto dazi sulle auto elettriche cinesi (dal 17% al 38%), ha lanciato indagini anti-sussidi su Huawei e ha introdotto norme di controllo sugli investimenti outbound, cioè verso Paesi terzi.
Ma i segnali sono preoccupanti:
• la Polonia ha denunciato aiuti francesi per treni regionali giudicati distorsivi,
• l’Olanda contesta la concentrazione di sussidi tedeschi nel settore chip,
• la Spagna chiede una regia europea più equa sugli IPCEI.
“La difesa industriale è necessaria. Ma non può diventare un pretesto per chiudere i mercati e distribuire sussidi a pioggia”, avverte il think tank Bruegel nel rapporto The New Industrial Europe.
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Riforme e vincoli: la voce di Cottarelli
Sul ruolo delle imprese pubbliche
“La proprietà da parte di un ente pubblico di un’impresa è giustificata solo quando il settore privato non può […] svolgere una certa attività necessaria per l’economia e la società. […] La priorità per lo Stato è fare bene i propri compiti tradizionali […] prima di dedicarsi all’attività imprenditoriale”.
Sulla mancanza di strategia nelle privatizzazioni italiane
“Il governo non ha alcuna idea di come fare le privatizzazioni […] Probabilmente perché una strategia non esiste”.
Sull’insostenibilità di un dirigismo eccessivo
“Alcuni pensano che le imprese pubbliche debbano sempre avere un ruolo strategico […] ma è importante avere una visione e il recente dibattito rivela che […] una chiara visione non sembrano averla”.
Sull’urgenza delle riforme strutturali
“L’Italia cresce troppo poco, servono riforme strutturali”… “potere d’acquisto giù del 12%”.
Sulle disuguaglianze e la spesa pubblica
“Più mercato e meno assicurazioni sociali erano la ricetta di Reagan e Thatcher, non credo abbiano funzionato e non credo che funzionerebbero in Italia”.
Sull’euro e la svalutazione
“Noi abbiamo vissuto male la nostra entrata nell’euro […] la svalutazione però non è la soluzione. Deprimerebbe il potere d’acquisto e penalizzerebbe i risparmiatori”.
Scenari futuri: tre rischi del nuovo statalismo europeo
1. Inflazione da sussidi
L’eccesso di aiuti pubblici rischia di drogare il mercato, alzare artificialmente i prezzi e spiazzare gli investimenti privati.
2. Frammentazione interna
Le disparità tra Paesi con più risorse (Germania, Francia) e quelli con vincoli di bilancio (Italia, Spagna, Est Europa) creano una concorrenza distorta anche dentro l’Ue.
3. Mancanza di exit strategy
Una volta che lo Stato entra nel capitale, spesso resta: pochi disinvestimenti, poca trasparenza. Il rischio è che lo statalismo diventi permanente, soffocando innovazione e concorrenza.
Osservazione di Bruegel (maggio 2025), importante think tank economico con sede a Bruxelles: “Senza un quadro comune, l’intervento pubblico rischia di diventare il nuovo protezionismo europeo”.
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Quale Stato, per quale economia
Il ritorno dello Stato nell’economia europea non è episodico, ma strutturale. Ma “più Stato” non è sinonimo di “migliore economia”. Il punto cruciale è la qualità dell’intervento pubblico: chi decide, con quali criteri, con quali limiti.
Serve una governance industriale comune a livello europeo, con:
• un bilancio Ue davvero federale per l’industria,
• un coordinamento trasparente sugli aiuti,
• una regia politica e non solo tecnica.
“Il futuro dell’Europa si gioca su una domanda: sarà un continente con 27 Stati imprenditori in concorrenza, o un blocco coeso capace di reggere la sfida globale?”, si chiede Enrico Letta, nel Rapporto sul Mercato Unico.
Finché non ci sarà una risposta condivisa, il nuovo statalismo rischia di restare un gigantesco esperimento nazionale. E proprio l’Italia – che oggi corre nel ritorno all’intervento pubblico – potrebbe scoprirne per prima i limiti.
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