3 Luglio 2025
L’ONU accusa: 1000 aziende finanziano l’«economia del genocidio»


«Lo dico sempre: se la Palestina fosse una scena del crimine avrebbe addosso le impronte digitali di tutti noi. I beni che compriamo, le banche a cui affidiamo i nostri risparmi, le università a cui paghiamo le tasse». Inizia così l’intervista che la Relatrice speciale dell’ONU per i Territori Occupati, Francesca Albanese, ha rilasciato al Manifesto questa mattina. Il commento si riferisce a un report presentato da Albanese stessa, che indaga i rapporti tra aziende, istituzioni internazionali e Israele. Con il loro supporto economico e finanziario permetterebbero a Tel Aviv di portare avanti l’occupazione e i massacri considerati azioni genocidarie. 

 

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Le accuse sono quindi pesantissime. Lo si legge chiaramente, fin dall’introduzione: «Queste entità permettono la negazione dell’autodeterminazione e altre violazioni strutturali nei territori palestinesi occupati, tra cui l’occupazione, l’annessione e i crimini di apartheid e genocidio, così come una lunga lista di crimini accessori e violazioni dei diritti umani, che vanno dalla discriminazione, alla distruzione indiscriminata, allo sfollamento forzato e al saccheggio, fino alle esecuzioni extragiudiziali e alla fame forzata».

 

Il report si basa principalmente su l’utilizzo del database creato dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (OHCHR), il quale elenca esclusivamente le imprese che hanno direttamente o indirettamente facilitato, permesso o tratto profitto dalla costruzione e dall’espansione degli insediamenti israeliani nei territori palestinesi occupati – che sono considerati illegali dal diritto internazionale. Successivamente Albanese ha mappato circa 1.000 entità aziendali in tutto il mondo, individuate come potenzialmente coinvolte in violazioni dei diritti umani e in crimini internazionali. Più di 45 imprese sono state esplicitamente nominate nel rapporto e informate dei fatti su cui si basano le accuse. Tra queste, solo 15 hanno fornito una risposta. 

 

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Le prime aziende citate sono quelle del settore militare. «Israele beneficia del più grande programma di approvvigionamento militare mai realizzato – quello relativo al caccia F-35, guidato dall’azienda statunitense Lockheed Martin, insieme ad almeno altre 1.650 aziende, tra cui il produttore italiano Leonardo S.p.A., e otto Stati», si legge. Per quanto riguarda le tecnologie di sorveglianza, si punta il dito contro IBM, attiva in Israele dal «dal 1972, formando personale militare e dei servizi di intelligence». Dal 2019 avrebbe anche gestito e aggiornato un database che ha permesso «la raccolta, l’archiviazione e l’utilizzo governativo dei dati biometrici dei palestinesi, e contribuendo al sistema discriminatorio dei permessi imposto da Israele». 

 

E le altre Big Tech? C’è Microsoft, «attiva in Israele dal 1991, dove ha sviluppato il suo centro più grande al di fuori degli Stati Uniti. Le sue tecnologie sono integrate nei servizi carcerari, nella polizia, nelle università e nelle scuole – comprese quelle situate negli insediamenti», si legge nel report. L’azienda fondata da Bill Gates, insieme ad Alfabeth (cioè Google) e Amazon concederebbero «a Israele un accesso praticamente esteso a livello governativo alle loro tecnologie cloud e di intelligenza artificiale, potenziando così le capacità di elaborazione dei dati, di analisi, di sorveglianza e di supporto decisionale».

 

Il testo poi si focalizza sulle aziende che producono tecnologie civili utilizzate per garantire la permanenza dei coloni delle terre palestinesi occupate. Si cita ad esempio l’americana Caterpillar Inc., che «fornisce a Israele attrezzature utilizzate per demolire abitazioni e infrastrutture palestinesi». Si fanno i nomi del gruppo coreano HD Hyundai, e del gruppo svedese Volvo: insieme ad altri importanti produttori di macchinari pesanti sarebbero «da tempo collegati alla distruzione di proprietà palestinesi».  Ampiamente utilizzati in Cisgiordania, dall’invasione nell’ottobre 2023 sono sempre più presenti nella Striscia, dove avrebbero contribuito alla distruzione delle infrastrutture urbane. Non a caso, dopo i bombardamenti su Rafah e Jabalia – che hanno ulteriormente alzato la pressione internazionale su Israele – l’esercito avrebbe oscurato i loghi delle aziende coinvolte.

 

A sostegno dell’occupazione ci sarebbero anche i colossi globali della logistica. A.P. Moller – Maersk A/S «spediscono merci provenienti dagli insediamenti e da aziende incluse nel database dell’OHCHR direttamente verso gli Stati Uniti e altri mercati», secondo quanto ricostruito. Terre che poi vengono messe al servizio del turismo, attraverso Booking Holdings Inc. e Airbnb, Inc. Queste, si legge del report «inseriscono nelle loro piattaforme proprietà e camere d’albergo situate negli insediamenti israeliani». Le inserzioni nei territori sarebbero in aumento, e possono ampliare la sofferenza dei palestinesi. Il testo prende l’esempio di Tekoa, insediamento situato vicino a Betlemme. Qui «Airbnb favorisce la promozione da parte degli insedianti di una “comunità calorosa e accogliente”, cercando di sminuire la violenza degli insedianti contro il villaggio palestinese vicino di Tuqu‘».

 

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L’«economia del genocidio» avrebbe alla propria base grandi capitali e interventi di banche e fondi di investimento. I titoli di Stato avrebbero infatti svolto un ruolo cruciale nel finanziare l’invasione di Gaza. L’aumento del budget militare sarebbe stato possibile solo aumentando l’emissione di obbligazioni. Tra queste si parla di «8 miliardi di dollari a marzo 2024 e 5 miliardi a febbraio 2025, oltre a emissioni nel mercato interno del nuovo shekel».  Il report accusa banche come BNP Paribas e Barclays di essere «intervenute per rafforzare la fiducia del mercato garantendo l’emissione di questi titoli di Stato internazionali e nazionali, permettendo così a Israele di contenere il premio sul tasso d’interesse nonostante un declassamento del credito».

 

Le 39 pagine di report sono dense di riferimenti normativi e a fonti ufficiali. Mostrano un quadro esteso e complesso dei rapporti tra economia, finanza globale e Israele. Ma resta comunque un quadro parziale, anche perché molte realtà sono ancora sotto fase di analisi. «Il mio è innanzitutto un richiamo alla legalità che si fonda su un punto: basta con l’artificio mentale per cui c’è un Israele buono dentro i confini dello Stato e un Israele cattivo nei Territori occupati», dice Albanese al Manifesto. «La colonizzazione è un’impresa dello Stato, l’apartheid è un crimine dello Stato, il genocidio è un crimine dello Stato. Non basta più disinvestire solo dalle colonie». Perciò, spiega la Relatrice, è necessario «tornare a un sistema di legalità».

 



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