
L’innovazione sostenibile si presenta come una delle sfide più urgenti e necessarie per il futuro. Non si tratta solo di applicare tecnologie all’avanguardia, ma di rivedere i modelli di leadership, organizzazione e strategia, affinché rispondano ai principi della sostenibilità e dell’etica.
Innovazione e sostenibilità: un cambiamento necessario
Durante un panel al Digital Detox Festival, organizzato da Alessio Carciofi a Sauris il 21 giugno scorso, insieme a Guido Saracco e Nicola Zamperini ci siamo posti una domanda che mi accompagna da tempo: il futuro ci renderà liberi? Non è una domanda solo filosofica.
È una questione concreta che riguarda il nostro modo di lavorare, di pensare, di scegliere. Una domanda che mi ha attraversata nel corpo, prima ancora che nella mente, quando ho iniziato a sentire che qualcosa, nel mio modo di stare nel mondo del digitale, non era più allineato con ciò che ero e che volevo diventare.
L’esperienza Amazon e la crisi dei principi di leadership
Per diciassette anni ho lavorato accanto ad Amazon, contribuendo a costruirne la comunicazione in Italia. Una storia straordinaria, in cui ho creduto profondamente. Ma a un certo punto, quel racconto ha iniziato a incrinarsi. I sedici Principi di Leadership che avevo fatto miei, veri e propri algoritmi culturali pensati per potenziare il business, si stavano trasformando in gabbie. Guidavano il mio agire, ma avevano smesso di nutrirmi. Ho cominciato ad ammalarmi, nel corpo prima ancora che nella mente. E così ho deciso di fermarmi e riscriverli, uno per uno. Non per negarli, ma per restituire loro un senso umano.
Da questa scelta è nato “Lettera a Jeff Bezos“. Non un j’accuse, ma un attraversamento. Un viaggio che ripercorre quei principi, li analizza nella loro luce e nella loro ombra, e li riscrive a partire da un nuovo centro: il corpo. La vulnerabilità. La nostra integrità di esseri umani.
La doppia faccia dei principi: luce e ombra dell’innovazione
Prendiamo il primo principio: “Pensare in grande“. Nella sua luce, è un invito all’immaginazione, alla visione, al coraggio di osare. Ma nella sua ombra può diventare una corsa cieca all’iper-performance, che ci scollega dal presente e ci spinge a non sentire. Ho imparato che pensare in grande non significa solo spingersi oltre, ma anche sapere quando fermarsi, guardarsi intorno, riconoscere il valore di ciò che già esiste. Di ciò che già siamo.
Ogni principio ha una doppia faccia. “Passione per il cliente” può facilmente trasformarsi in ossessione per il risultato. “Conquistare la fiducia” diventa controllo maniacale della relazione con il cliente, dimenticando tutti gli altri pubblici che costituiscono la filiera, future generazioni e Pianeta compreso. “Propensione all’azione” si tramuta in iperattività compulsiva e senso di colpa quando ci si rilassa. E così via. Per ciascuno ho provato a restituire un equilibrio, un centro, una possibilità. Là dove prima c’era solo performance, ho cercato presenza. Là dove prima c’era solo velocità, ho cercato ascolto.
Bioenergetica e tecnologia: il corpo come bussola di consapevolezza
Questo processo ha coinciso con il mio avvicinamento alla Bioenergetica Umanistica, in particolare al metodo Bioenergetic Shen Treatment ideato da Pino Ferroni che ha integrato la Bioenergetica occidentale di Alexander Lowen con i principi del Taoismo e della Medicina Tradizionale Cinese. Una pratica che mette al centro il corpo come luogo di consapevolezza e trasformazione. Perché è dal corpo che arrivano le prime avvisaglie di disallineamento. Il malessere, la fatica, la tensione cronica. Non possiamo continuare a costruire sistemi ignorando ciò che sentiamo. Non possiamo permettere che siano gli algoritmi a dettare le regole, senza chiederci quali principi li governano.
Gli algoritmi non sono neutrali: cultura organizzativa e valori
L’algoritmo non è neutrale. È il riflesso dei valori che lo hanno generato. E se quei valori mettono al centro solo l’efficienza, il margine, la scalabilità, finiamo per costruire organizzazioni che performano benissimo ma si svuotano dall’interno. Lo vediamo nelle grandi tech company, lo vediamo nelle startup, lo vediamo anche nel settore privato e in quello pubblico: burnout, disconnessione, perdita di senso. Non è solo un problema individuale, è una questione di cultura organizzativa.
Nel mio libro, ogni capitolo è strutturato come un ciclo: principio, luce, ombra, principio riscritto, lezione appresa. È un modello che può essere applicato anche altrove. Non per dire che la tecnologia è il male, anzi, ma per restituirle il valore di strumento fondamentale piuttosto che di fine, come a volte tendiamo inconsapevolmente a fare. Perché possiamo cambiare le regole del gioco, se impariamo a riconoscere i segnali.
Ascoltare il corpo: i segnali del disallineamento digitale
Uno dei segnali più potenti, per me, è stato il corpo. I sintomi. La fatica costante, i malesseri apparentemente inspiegabili, la sensazione di essere scollegata da ciò che facevo. Il corpo è il primo a sapere quando stiamo tradendo noi stessi. Eppure lo zittiamo, lo ignoriamo, lo consideriamo un ostacolo. Finché non crolla. Finché non ci costringe a fermarci. Quel fermo, se lo accettiamo, può diventare un varco. Una soglia da attraversare per riscrivere la nostra storia.
Scrivere “Lettera a Jeff Bezos” è stato questo: attraversare la soglia. Guardare in faccia tutto quello che non funzionava più. Ma anche riconoscere il valore di ciò che avevo imparato. Perché i Principi di Leadership sono molto potenti e ci aiutano a innovare, se siamo in grado di attraversarli nelle loro luci e nelle loro ombre. Solo che, come ogni strumento potente, possono ferire o guarire. Dipende da come li usiamo. Dipende da quali parti di noi li governano.
Verso nuovi modelli di leadership e innovazione umana
La sfida, oggi, è immaginare nuovi modelli. Non solo di leadership, ma di innovazione, di organizzazione, di strategia, di governance. Modelli che integrino mente e corpo, performance e gentilezza, visione e radicamento. In fondo, la vera innovazione non è fare più veloce, ma fare meglio. E meglio significa anche più umano, più sostenibile, più coerente.
In questo senso, credo che il futuro ci renderà liberi solo se impareremo a liberare prima noi stessi. Se sapremo ascoltarci, interrogarci, scegliere. Se non delegheremo all’algoritmo il compito di decidere chi siamo. Ma torneremo a essere noi a scrivere non solo il codice informatico, ma anche quello legislativo che definisca il perimetro di azione delle intelligenze artificiali. A scegliere i nostri principi. A riscrivere la nostra storia, non sulla base della paura, ma del desiderio.
Rifondare l’etica digitale: dalla bio-etica alla responsabilità collettiva
Lo ripeto spesso: non dobbiamo rigettare l’algoritmo. Dobbiamo rifondarlo su basi bio-etiche, per analizzarne le implicazioni morali, sociali, legali. E anche corporee, visto l’effetto sempre più evidente che tutto questo ha sui nostri corpi, spesso dimenticati. Serve un’etica che parta dalla vita, dal corpo, dal sentire. Non è un’utopia. È una responsabilità. Una possibilità concreta. Che possiamo allenare ogni giorno, nelle piccole scelte: in come comunichiamo, in come lavoriamo, in come costruiamo le nostre organizzazioni e intessiamo le nostre relazioni.
L’innovazione ha senso solo se ci aiuta a rispondere ai grandi interrogativi del nostro tempo. Solo se migliora la qualità della nostra vita, non solo dei nostri business. E sta a noi, non alle macchine, il compito di ripulirla da logiche esclusivamente orientate al profitto e riportarla a casa. Di ricordare che, prima di tutto, siamo esseri umani. E che la nostra libertà comincia quando smettiamo di correre e iniziamo ad ascoltarci. Ad ascoltare l’altro.
Oggi, secondo Oxfam, l’1% più ricco del pianeta possiede più del doppio della ricchezza detenuta dal 99% restante. È con questa realtà che dobbiamo fare i conti, ogni volta che progettiamo una nuova tecnologia o lanciamo una nuova impresa. Perché se non cambiamo direzione, l’innovazione non sarà altro che un altro nome del privilegio. E invece può ancora essere uno strumento di equità. Ma dipende da noi.
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