
Il ministro per gli Affari Europei si scaglia anche contro l’eccesso di formalismo. I rischi di un fondo unico europeo
Il tema del «green deal» – il patto verde europeo che punta a raggiungere la neutralità climatica con zero emissioni di CO2 entro il 2050 – continua ad agitare il dibattito politico. «Una politica di green deal non ha senso», perché solo nel settore dell’auto pesa su 13 milioni di famiglie, con il rischio che «se teniamo questa strada diventiamo un giardinetto per anziani benestanti, ma avremo la deindustrializzazione del Paese con tutti gli effetti di crisi sociale che si scateneranno». È un confronto difficile quello con l’Europa che il ministro per gli Affari Europei, il Pnrr e le Politiche di Coesione Tommaso Foti, racconta a Bruno Vespa dal palco del
Forum in Masseria di Manduria dove, tra un via vai di auto blu,
arriva guidando una Y10 in noleggio. Ci sono i fondi di coesione, che i Paesi cosiddetti frugali vorrebbero trasformare in fondo unico penalizzando Paesi come l’Italia. O un formalismo che talvolta per qualche mese rischia di creare non pochi problemi, magari dopo aver tralasciato per anni dossier come quelli dell’energia.
La filiera dell’automotive
«Noi stiamo pagando una politica di green deal che non ha senso – dice Foti – noi andiamo verso la deindustrializzazione dell’Europa, stiamo perdendo di competitività. Si sta sottovalutando la vicenda dell’automotive che è significativa, pesa in Europa su 13 milioni di famiglie che direttamente traggono ragione di sostentamento dagli stipendi che promanano dall’automotive. Per tacere di tutte le filiere, a partire da quella italiana,
che sono destinate non a riconvertirsi ma a sparire».
Eccesso di formalismo
Talvolta a pesare è un eccesso di formalismo. «Ci sono cappi che vengono messi al collo delle imprese italiane, ma non solo da parte dell’Europa. Venerdì abbiamo speso due ore con la direttrice generale del Pnrr per cercare di spiegare che se arrivavamo al 30 giugno o al 31 agosto 2026 probabilmente il risultato sarebbe stato diverso dall’attuale».
Fondi di coesione: programmazione veloce
Il nodo è quello di un approccio globale che il ministro vorrebbe fosse cambiato. «Io penso di poter ribadire che l’Europa non deve essere una macchina per vietare, ma uno strumento che effettivamente fa crescere il sistema delle imprese in tutto il suo continente». Comunque sul Pnrr «i
termini sono perentori». Ergo: «bisogna accelerare sui progetti». I capitoli aperti sono tanti. Ora c’è quello dei fondi di coesione. Una battaglia che vede impegnata l’Italia anche con il commissario Fitto in prima linea. Foti vorrebbe una programmazione veloce: gli attuali 7 anni, ironizza, superano anche i piani quinquennali delle Russia sovietica. Si parla del 2028-2034, un periodo decisivo per l’Europa affinché recuperi gap storici.
Il fondo unico europeo: un rischio per l’Italia
Già perché questi fondi servono proprio per recuperare i divari tra aree territoriali. Ma intanto di discute e non è detto che si arrivi ad un accordo: «c’è una spaccatura evidente», spiego Foti. Alcuni Paesi, i cosiddetti «frugali», vorrebbero introdurre un fondo unico europeo del quale ogni
Paese decide l’impiego: «Finirebbe per penalizzare l’Italia sia sotto il profilo della coesione sia sotto il profilo della Pac (Politica agricola comune). Queste – spiega Foti – sono le battaglie che l’Italia sta facendo in Europa e che nei giorni prossimi ovviamente troveranno larga eco».
L’impatto delle incertezze globali sull’economia locale
E al proposito di Sud, al Forum in masseria di Bruno Vespa è intervenuto anche Emanuele di Palma, presidente della Bcc San Marzano, istituto di credito pugliese: «Le incertezze globali, i dazi e i conflitti geopolitici indeboliscono la fiducia e rallentano gli investimenti. È un contesto che Bankitalia definisce di espansione senza intensità, e che si riflette anche a livello locale». Per questo Di Palma ha ribadito «il ruolo strategico del credito cooperativo: «Possiamo e dobbiamo trasformare la prudenza in fiducia e il risparmio in crescita. Le imprese oggi rallentano non per il costo del denaro, ma per l’incertezza. Serve una rete bancaria locale solida, che accompagni la transizione».
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