12 Luglio 2025
Ricerca, sviluppo e innovazione, Taisch (Made) e Metta (IIT): “Ecco perché le imprese devono puntare su aggregazione e condivisione”


La reindustrializzazione dell’Italia e dell’Europa passa da un cambio di paradigma che metta al centro l’aggregazione tra imprese, la condivisione delle conoscenze e un ecosistema di trasferimento tecnologico capace di raggiungere capillarmente il tessuto produttivo. È questa la visione emersa dal confronto tra Marco Taisch, presidente di MADE – Competence Center Industria 4.0, e Giorgio Metta, direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT).

Durante il panel “Dal laboratorio al prodotto: formazione, ricerca e trasferimento tecnologico”, organizzato nell’ambito dell’evento del Partito Democratico “Le rotte del futuro. Re-industrializzare l’Italia e l’Europa”, i due esperti hanno delineato una diagnosi precisa delle sfide che attendono il sistema manifatturiero nazionale e indicato una terapia basata su massa critica e collaborazione strategica.

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L’obiettivo è scuotere il Paese da uno stallo di produttività che dura da quasi un ventennio e proiettarlo verso una nuova stagione di competitività fondata non più solo sulla trasformazione di materiali, ma sulla valorizzazione strategica dei dati.

Il nodo della produttività e il trasferimento tecnologico

Il punto di partenza dell’analisi di Marco Taisch è l’allarmante dato sulla produttività: da circa vent’anni la produttività del lavoro in Italia non registra una crescita significativa. Un’inerzia pericolosa, che Taisch descrive con la metafora della “rana bollita”, ignara del pericolo mortale mentre la temperatura dell’acqua sale lentamente. Il confronto sulla produttività con i partner europei è impietoso: negli ultimi due decenni, a fronte di una crescita del manifatturiero italiano tra il 18% e il 24%, la Germania ha segnato un +38%, la Francia un +56% e la Spagna un +49%. Divario che si traduce in una progressiva erosione di competitività.

La via maestra per invertire questa tendenza è l’innovazione. Se investire in ricerca e sviluppo resta fondamentale, il vero tallone d’Achille del sistema Italia è l’incapacità di trasferire efficacemente i risultati di queste attività – sviluppate internamente o disponibili sul mercato – alle proprie imprese. Il concetto di trasferimento tecnologico viene spesso frainteso, associandolo esclusivamente a scoperte scientifiche di frontiera, alla “rocket science”. Le piccole e medie imprese italiane, invece, hanno un bisogno primario di adottare tecnologie consolidate e mature, strumenti che rappresentano la frontiera dell’innovazione odierna ma che non sono necessariamente rivoluzionari. Serve quindi un’azione sistematica per “prendere per mano” gli imprenditori e aiutarli a integrare soluzioni digitali e tecnologiche che per molti sono ancora lontane dalla pratica quotidiana.

Superare la frammentazione: perché “piccolo” non è più bello

Uno dei problemi principali citati da Taisch è la struttura stessa del sistema produttivo italiano, caratterizzata da una miriade di piccole e medie imprese. Se il modello della PMI ha garantito flessibilità e successo nei decenni passati, oggi si rivela un limite strutturale. Raggiungere in modo capillare una moltitudine di piccole realtà è uno sforzo immenso, che richiede una rete di supporto molto più densa degli attuali otto Competence Center nazionali.

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Secondo Taisch bisogna quindi favorire un processo di aggregazione. “La dimensione aziendale è direttamente proporzionale alla capacità di fare innovazione”, dice il professore. “Con un investimento nazionale in ricerca e sviluppo pari all’1,4% del PIL, un’azienda da cento dipendenti può permettersi appena 1,4 ricercatori. Ma se la stessa azienda raggiungesse i mille dipendenti, il team di ricerca salirebbe a 14 persone, una dimensione sufficiente per generare un impatto reale”.

L’aggregazione è quindi una precondizione per creare quella massa critica indispensabile non solo per sviluppare, ma anche per assorbire innovazione. A questo si aggiunge la sfida demografica e la fuga di talenti. Le piccole imprese faticano ad attrarre e trattenere giovani laureati e profili qualificati, che non vi ritrovano lo spazio adeguato per la crescita professionale, innescando un circolo vizioso che impoverisce il capitale umano del Paese.

Un nuovo modello per la ricerca: l’alleanza tra pubblico e privato

Metta rafforza questa visione partendo dal mondo della ricerca. Citando il rapporto Draghi, evidenzia come l’Europa investa in assoluto troppo poco in ricerca e sviluppo e, soprattutto, con un rapporto sbilanciato tra pubblico e privato. Mentre negli Stati Uniti il 70% degli investimenti in R&S proviene dal settore privato, in Europa la proporzione è invertita. Uno squilibrio, questo, che diventa chiaramente un ostacolo, perché una ricerca che mira ad avere un impatto industriale deve nascere già con una forte componente privata.

Metta suggerisce quindi di guardare a modelli alternativi, come istituti di ricerca configurati come entità private che operano con logiche di mercato, che vadano “a cercare le aziende” e a costruire progetti su misura insieme a loro.

L’IIT stesso, pur essendo una fondazione di diritto privato, opera con finanziamenti prevalentemente pubblici. L’idea è di promuovere la nascita di soggetti che agiscano da ponte, capaci di “vendersi” alle imprese e di lavorare in modo collaborativo.

Anche qui, dunque, l’aggregazione è un fattore fondamentale. La ricerca, specialmente quella che coinvolge hardware e innovazioni di processo per la manifattura, ha costi elevati che un’unica PMI difficilmente può sostenere. Lavorare con consorzi o filiere di imprese permette di mutualizzare i costi e i rischi, rendendo accessibili progetti altrimenti proibitivi.

La doppia sfida delle competenze e della governance

Taisch e Metta hanno poi posto l’accento sul tema della formazione, che si manifesta a tutti i livelli della piramide professionale.

Esiste un enorme deficit di competenze digitali di base: secondo alcune stime, circa 3,5 milioni di lavoratori italiani non possiedono le capacità minime per operare in un contesto digitalizzato. Ma la carenza si estende fino ai vertici: mancano circa 100.000 nuovi laureati all’anno nelle discipline STEM per sostenere la transizione.

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Per affrontare le sfide poste dalle transizioni serve un “tessuto” di supporto alle imprese che includa i Competence Center, gli istituti di ricerca, il sostegno all’imprenditorialità e alle startup, senza però cadere nella narrazione che vede nel solo digitale la panacea.

Secondo Taisch, “lavorare troppo sulle startup per creare posti di lavoro non può non essere accompagnato da una difesa di quei posti di lavoro che già ci sono nelle fabbriche. Attenzione a non essere troppo sbilanciati nel digitale come creatore dei posti lavoro rispetto al manifatturiero”.

Alla difesa dei posti di lavoro esistenti nelle fabbriche si deve poi accompagnare la creazione di nuove opportunità. Per orchestrare questo sforzo serve una “regia” nazionale, con una visione strategica capace di selezionare pochi settori di punta su cui concentrare le risorse, come la robotica in cui l’Italia vanta eccellenze, evitando una dispersiva distribuzione “a pioggia” dei fondi.

Un concetto ribadito da Patrizia Toia, ex europarlamentare del Partito Democratico e moderatrice dell’incontro, che ha sottolineato come le singole esperienze, pur necessitando di autonomia, debbano essere tenute insieme non da vincoli burocratici, ma da ‘una visione, una strategia e la scelta dei settori su cui puntare’.

Dall’era dei materiali all’economia dei dati

Il futuro della manifattura italiana non risiede più solo nella capacità di trasformare la materia prima, ma nell’intelligenza con cui saprà trasformare i dati. La sintesi più efficace della rotta che l’Italia deve seguire arriva nelle parole conclusive di Marco Taisch.

La fortuna del Made in Italy nei decenni d’oro del dopoguerra è stata costruita sulla straordinaria capacità di trasformare materie prime, spesso importate. Oggi, la nuova materia prima strategica è il dato. L’intelligenza artificiale, e più in generale l’architettura di Industria 4.0, non è altro che un potente trasformatore di dati. La sfida per il sistema industriale è quindi quella di replicare il successo ottenuto con i materiali nel nuovo dominio digitale. Questo implica la necessità di diffondere una “cultura del dato” all’interno delle fabbriche, digitalizzare i processi e adottare le tecnologie abilitanti che permettono di raccogliere, analizzare e utilizzare le informazioni per aumentare l’efficienza, la produttività e la competitività.

Come sottolineato in chiusura da Giorgio Metta, l’intelligenza artificiale offre l’opportunità unica di catturare il sapere artigianale e l’eccellenza del “saper fare” italiano, trasformandolo in dati riproducibili e scalabili.

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