2 Agosto 2025
Le imprese chiedono compensi per le perdite, Meloni si rivolge all’Europa


Soldi europei per compensare le perdite. Per aiutare le imprese italiane a reggere i contraccolpi dei dazi di Donald Trump al 15 per cento, da più parti si chiede che sia l’Europa a pagare il conto. Lo chiede il governo di Giorgia Meloni, e lo chiede pure Confindustria. Il ragionamento è questo: è stata la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen a chiudere l’accordo in Scozia con Donald Trump e per questo ora deve essere Bruxelles a risarcire le imprese. Si invoca una reazione come ai tempi del Covid, paragonando i danni della guerra commerciale a quelli della pandemia.

L’accordo del 27 luglio in realtà è ancora tutto da scrivere nei dettagli. La Commissione europea ha fatto sapere che «non è giuridicamente vincolante» e che «l’Ue e gli Usa negozieranno ulteriormente». Nella nota informativa di Bruxelles, ci sono divergenze rispetto alla scheda pubblicata dalla Casa Bianca. In particolare sui chip e i farmaci, che secondo Bruxelles non dovrebbero essere tassati. L’incertezza, insomma, continua a regnare sovrana nonostante il deal scozzese, bloccando ancora gli investimenti delle aziende europee.

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Intanto, il governo di Meloni si dice pronto a varare un pacchetto di sussidi per il mondo produttivo. Ma oltre alle misure nazionali, tutti i ministri chiedono un’azione comune dell’Europa, mentre fanno fronte comune con le imprese. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha incontrato i rappresentanti degli imprenditori alla Farnesina, annunciando l’istituzione di una task force permanente sui dazi. Al ministero delle Imprese si è riunito anche il Comitato attrazione investimenti esteri. Mentre il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ancora non commenta, ma al question time del 30 luglio qualche risposta alle opposizioni scalpitanti dovrà darla.

Il punto è che le incognite sono ancora troppe per definire una strategia con dati e cifre. Si attendono ancora i dettagli dell’accordo con le possibili esenzioni dei prodotti, la lista precisa e le percentuali accanto.

Undici Paesi membri, tra cui l’Italia, su iniziativa della Francia hanno già chiesto alla Commissione di presentare un nuovo quadro di protezione commerciale dell’industria dell’acciaio. L’attuale misura di salvaguardia del settore scadrà a giugno 2026 e, dicono, «non è più sufficiente a proteggere l’industria siderurgica europea».

Al momento, però, anche le previsioni sulle possibili perdite per le aziende italiane sembrano schizofreniche. Secondo una stima di Cassa depositi e prestiti si potrebbe arrivare a un danno di “soli” 4 miliardi. Il presidente di Confindustria Emanuele Orsini parla di 22,6 miliardi di euro di minori vendite negli Stati Uniti. Intesa SanPaolo qualche mese fa stimava un possibile calo di crescita della manifattura italiana intorno allo 0,2 per cento. Ma si dovranno valutare poi gli effetti reali sui singoli comparti.

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Il mantra resta quello che l’Europa deve fare la sua parte. Si ipotizzano sostegni europei differenziati per settori e filiere. E quindi con cifre diverse da Paese a Paese, a seconda delle composizione dei tessuti produttivi nazionali. Difficile che i soldi vengano pescati dal bilancio comune europeo. La strada più praticabile potrebbe essere un allentamento delle regole sugli aiuti di Stato, come avvenuto con la pandemia, e non una deroga al patto di stabilità.

Il governo Meloni intanto ha tirato fuori dal cassetto quello che già chiamano “scudo-anti dazi” per i settori potenzialmente più colpiti, ovvero quello dei macchinari, della farmaceutica e dell’alimentare. Ma non volendo fare altro debito, si pensa di prendere i soldi da una rimodulazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Ovvero sempre soldi europei, che però in teoria sarebbero destinati ad altro. Si parla di 25 miliardi: 14 del Pnrr, che possono essere reindirizzati per sostenere l’occupazione; e 11 dalla riprogrammazione dei fondi di coesione e dal fondo sociale per il clima. In ogni caso, comunque, ci sarà bisogno del via libera della Commissione europea per allentare le maglie delle norme sugli aiuti diretti alle imprese da parte dello Stato.

Tajani ha escluso comunque una manovra correttiva in corso d’opera. Ma ha già elencato una serie di richieste anche di politica monetaria indirizzate alla Bce. L’elefante nella stanza è sicuramente la svalutazione del dollaro rispetto all’euro, che è del 13 per cento da quando Trump si è insediato, rendendo i prodotti europei ancora più costosi per i consumatori americani. Per un esportatore italiano, sommando dazio e cambio sfavorevole, l’onere totale potrebbe arrivare anche al 3o per cento.

Più di un esponente di governo chiede alla Bce di tagliare il costo del denaro come è stato fatto durante la pandemia. «Siamo al 2 per cento, si può arrivare anche a zero. E si può pensare al quantitative easing, cioè all’acquisto da parte della Bce di titoli di Stato di diversi Paesi dell’Ue così da avere più denaro in circolazione», ha detto Tajani. Decisione che, ovviamente, spetta alla Bce, che nell’ultima riunione ha lasciato i tassi stabili dopo otto tagli consecutivi.

Anche il presidente di Confindustria Emanuele Orsini chiede che siano mobilitate risorse europee per compensare i settori più colpiti, ma senza usare i fondi del Pnrr e magari facendo ricorso agli eurobond. Le imprese avanzano l’idea di un piano straordinario europeo per l’industria che mobiliti investimenti in deroga al patto di stabilità, come è stato fatto per la difesa, sollecitando anche l’approvazione dell’accordo di libero scambio con il Mercosur, che aprirebbe a nuovi mercati e a regime potrebbe valere 30 miliardi per le imprese europee e tra i 4 e i 7 per quelle italiane.

Nell’accordo del 27 luglio, poi, la Commissione europea si è impegnata nei prossimi tre anni anche a investire 600 miliardi di dollari negli Stati Uniti e ad acquistare almeno 750 miliardi di euro di prodotti energetici americani in cambio del dimezzamento dei tassi dal 30 al 15 per cento. Ma si tratta al momento di promesse «fantasiose», come scrive Politico.

Non si possono costringere le imprese private a fare investimenti: solo l’Italia, da parte sua, dovrebbe raddoppiare il ritmo annuo degli investimenti esteri per concentrarli tutti in un solo Paese. Impossibile. Anche perché, se può essere relativamente facile per alcune merci attivare linee di produzione Oltreoceano, come chiede Trump, per settori come l’automobile o la farmaceutica è molto complicato. E non avrebbe senso per l’alimentare, visto che quello che i consumatori americani chiedono è cibo made in Italy. Quanto agli acquisti di 750 miliardi di prodotti energetici in tre anni, vale lo stesso discorso: non si possono costringere le compagnie a importare solo gas o petrolio statunitense. Senza dimenticare, tra l’altro, che l’intero export energetico mondiale degli Stati Uniti vale circa 160 miliardi di dollari.

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