
L’avvocato Marco Padovan: «Per minimizzare l’impatto delle tariffe, le aziende ci chiedono di scorporare i costi dal valore del bene. La moda ricorre alla First Sale Rule»
Con l’entrata in vigore dei dazi reciproci voluti dal presidente Trump, le aziende italiane si stanno muovendo in un territorio, per molti, del tutto nuovo. «Fino a poco tempo fa — spiega l’avvocato Marco Padovan, specializzato in International trade compliance — le imprese operavano in un sistema multilaterale relativamente stabile. Oggi, invece, le tariffe variano in base all’origine del prodotto e questo ha riportato al centro un tema considerato secondario: l’origine doganale di un bene».
I paesi di provenienza
La differenziazione dei dazi per Paese di provenienza — affiancata a misure sotto la Sezione 232 del Trade Expansion Act (sicurezza nazionale), che colpiscono settori come acciaio, alluminio, rame e auto — obbliga le aziende a una verifica meticolosa. «Se acquisto componenti in India o in Cina e li assemblo in Italia — precisa Padovan — il prodotto diventa italiano solo se la trasformazione è sostanziale. Se la lavorazione è minima, l’origine resta quella extra-Ue, con dazi conseguenti».
Il calcolo del valore
L’altra grande preoccupazione riguarda il calcolo del valore su cui si applica il dazio. «Si tratta di dazi ad valorem — spiega Padovan — quindi le aziende ci chiedono come ridurlo, rispettando le regole. Ad esempio, possiamo scorporare dal prezzo elementi come trasporto, interessi passivi o attività di commissioning. Un altro strumento è la First Sale Rule: se un bene viene acquistato da un fornitore e rivenduto negli Usa senza trasformazioni, si può dichiarare il valore della prima vendita, inferiore a quello finale. È una pratica diffusa soprattutto nella moda».
L’impatto
L’impatto non è solo economico. Il neoprotezionismo mette sotto esame anche la supply chain. «Serve una tracciabilità totale della catena di fornitura — sottolinea Padovan — perché, ad esempio, per prodotti derivati da acciaio o alluminio, se non si dichiara l’origine si rischia un dazio del 200% come unknown origin. Questo comporta certificati di fonderia e informazioni che molti fornitori non hanno. Significa tempi più lunghi, selezione dei fornitori e burocrazia più complessa».
I settori
Alcuni settori sono già in allerta, come quello farmaceutico, dove la maggioranza dei principi attivi proviene dalla Cina, sostiene il legale. «L’America ha un import importante di prodotti farmaceutici dall’Europa, soprattutto dall’Irlanda, ma anche dall’Italia e le nostre aziende, come tutta l’industria, sono molto preoccupate». Temono l’impatto di possibili dazi sotto la Sezione 232, oggi in fase di indagine insieme ad auto, semiconduttori, legno e terre rare. «Le indagini hanno una scadenza di 6 mesi, i risultati arriveranno tra fine anno e inizio 2026, prevede Padovan. Anche se per l’Ue, i farmaci rientrano nell’aliquota del 15%.
L’incertezza
Una delle conseguenze è l’incertezza che frena gli investimenti e rischia di pesare sulla crescita. Molte imprese italiane stanno valutando se rafforzare la presenza negli Stati Uniti o rinviare i progetti. «Trump — osserva Padovan — ha ancora tre anni e mezzo di mandato, poi tutto potrebbe cambiare. Alcuni preferiscono aspettare. E poi c’è anche il nodo della manodopera manifatturiera Usa, poco specializzata e molto costosa». Per le imprese italiane, la sfida ora è doppia: minimizzare l’impatto immediato dei dazi e ristrutturare le catene di fornitura in un contesto che può cambiare da un giorno all’altro.
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