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Un vento gelido scuote il settore tecnologico globale. A portarlo è un report del Massachusetts Institute of Technology che, con dati alla mano, smonta l’entusiasmo quasi fideistico che negli ultimi due anni ha circondato l’intelligenza artificiale generativa. La ricerca evidenzia un dato che non lascia spazio a interpretazioni: il 95% delle aziende che hanno investito nell’AI non ha registrato ritorni economici concreti. Solo una ristretta minoranza, circa il 5%, riesce a tradurre gli investimenti miliardari in vantaggi misurabili. È un colpo secco che mette in discussione non solo la narrativa trionfalistica di Big Tech, ma anche la tenuta del mercato finanziario, che proprio su quelle promesse aveva costruito valutazioni record.
Le borse hanno reagito con immediatezza. I titoli simbolo del boom AI, da Nvidia a Oracle, hanno registrato perdite consistenti. A complicare il quadro ci ha pensato Sam Altman, ceo di OpenAI, che non ha usato mezzi termini: “Siamo nel pieno di una bolla. La differenza è che ancora non sappiamo quando scoppierà.” Parole che rievocano alla memoria il crack delle dot-com all’inizio degli anni Duemila, quando un’ondata di entusiasmo senza basi concrete si tramutò in crollo verticale, spazzando via capitalizzazioni e illusioni.
Il report del MIT mette a nudo un fenomeno diffuso: le aziende hanno adottato sistemi di intelligenza artificiale senza una strategia chiara. Molte hanno rincorso la moda, convinte che bastasse “mettere AI” in un progetto per generare valore. Ma la realtà è ben diversa. L’implementazione di modelli complessi richiede infrastrutture, competenze, tempo e una visione di lungo periodo. Senza questi elementi, l’investimento rimane un esercizio di stile, più utile alle slide dei consigli di amministrazione che al bilancio aziendale.
Il tema non è solo industriale o finanziario, ma anche politico. La Casa Bianca sta valutando l’ingresso diretto dello Stato in Intel con una quota del 10%. Un’operazione straordinaria che dimostra come i semiconduttori e l’AI siano ormai considerati asset strategici al pari dell’energia o della difesa. Anche in Europa la partita è aperta: Bruxelles ha avviato programmi di finanziamento massicci e l’Italia, attraverso il PNRR, ha destinato fondi importanti per progetti legati all’intelligenza artificiale, dalla sanità digitale alla pubblica amministrazione. La domanda che sorge spontanea è: siamo sicuri che questi investimenti non finiranno per alimentare l’ennesima bolla?
Lo scenario italiano offre spunti interessanti. Le startup che lavorano con l’AI sono in crescita e attraggono capitali, ma molte rischiano di rimanere intrappolate nella logica del “prodotto vetrina”: prototipi avveniristici, pitch accattivanti, ma poca sostanza quando si tratta di generare fatturato. Per le PMI, che rappresentano l’ossatura del nostro tessuto produttivo, il discorso è ancora più delicato. Integrare l’AI significa affrontare costi elevati e affrontare un’incertezza significativa sui ritorni. Eppure non mancano le aree dove l’adozione intelligente di queste tecnologie può davvero fare la differenza: nella manifattura avanzata, nella logistica, nella gestione predittiva delle catene di fornitura, nella telemedicina.
La lezione che arriva dal report del MIT è chiara: l’AI non è una bacchetta magica, ma uno strumento. Chi la utilizza senza strategia rischia di bruciarsi; chi invece la integra con metodo, processi solidi e obiettivi misurabili potrà effettivamente raccogliere i frutti. Non è un caso che il 5% di aziende virtuose segnalato dallo studio coincida spesso con realtà che hanno avuto la lucidità di non correre dietro alla moda, ma di costruire progetti mirati e sostenibili.
Il futuro dell’AI non è già scritto. Potrà essere la più grande rivoluzione industriale del nostro tempo o l’ennesima illusione collettiva. Dipenderà dalla capacità delle imprese, dei governi e degli investitori di distinguere tra hype e valore reale. La bolla, se esploderà, non sarà colpa della tecnologia, ma di chi l’ha scambiata per un trofeo da esibire anziché per un alleato da comprendere e governare.
Oggi come venticinque anni fa, la verità è che i mercati non perdonano i sogni senza fondamenta. L’intelligenza artificiale potrà cambiare il mondo, ma non lo farà da sola: servono visione, pragmatismo e responsabilità. In caso contrario, il rischio è che il brusio attorno all’AI si trasformi presto in silenzio. E la storia, si sa, non è tenera con chi confonde l’entusiasmo con il progresso.
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