
La Corte Costituzionale ha demolito il Jobs Act sui licenziamenti. Torna la reintegra e l’ampia discrezionalità dei giudici. Per le imprese, il caos.
Un vero e proprio terremoto normativo si è abbattuto sul mondo del lavoro. Le sentenze della Corte Costituzionale, emesse tra il 2018 e oggi, hanno, pezzo dopo pezzo, smantellato l’impianto del Jobs Act, la riforma che nel 2015 prometteva certezze sui costi dei licenziamenti per le imprese. Oggi, quel castello di regole è crollato, lasciando il campo a un’enorme discrezionalità dei giudici e al grande ritorno della reintegrazione nel posto di lavoro. Un paradosso che riporta l’Italia indietro di decenni, generando un’incertezza giuridica che storicamente ha sempre frenato gli investimenti esteri e lo sviluppo economico interno. Il sistema attuale, incredibilmente simile a quello degli anni Settanta, risulta complicato persino per gli addetti ai lavori, figuriamoci per imprenditori e lavoratori.
Cosa cambia per i licenziamenti nelle piccole imprese?
L’ultimo intervento della Consulta, con la sentenza n. 118 del luglio scorso, ha colpito duramente il regime sanzionatorio per le piccole imprese, ovvero quelle con meno di 15 dipendenti. È stato dichiarato incostituzionale il tetto massimo di sei mensilità come indennizzo per il licenziamento illegittimo di un lavoratore assunto dopo il 7 marzo 2015. La Corte ha ritenuto tale limite troppo esiguo per consentire al giudice una personalizzazione del risarcimento e per fungere da deterrente.
Di conseguenza, per i lavoratori del Jobs Act licenziati da una piccola impresa, la sanzione economica ora viene decisa dal giudice in un intervallo che va da un minimo di 3 a un massimo di 18 mensilità. Si crea così un’assurda anomalia: un lavoratore assunto prima del 2015, protetto dalla vecchia normativa, in caso di licenziamento illegittimo da una piccola impresa riceve un massimo di 6 mensilità (salvo rari casi di anzianità elevatissima che portano il tetto a 10 o 14 mensilità). In pratica, la riforma nata per ridurre gli oneri e la soggettività giudiziale ha prodotto un risultato diametralmente opposto: sanzioni potenzialmente più alte e una discrezionalità dei giudici ancora più ampia, dato che l’indennizzo massimo di 18 mensilità può essere concesso anche a un neoassunto.
Come viene calcolato oggi l’indennizzo per licenziamento?
Il criterio rigido basato sulla sola anzianità di servizio, introdotto dal Jobs Act per dare prevedibilità ai costi di separazione, è stato uno dei primi pilastri a cadere sotto i colpi della Corte. Già nel 2018, con la sentenza n. 194, i giudici costituzionali hanno bocciato questo meccanismo perché rendeva l’indennità una liquidazione “forfetizzata e standardizzata”, incapace di considerare le specificità di ogni singolo caso.
Oggi, pertanto, il giudice, nel quantificare l’indennizzo (che per le aziende più grandi va da 6 a 36 mensilità), non è più vincolato alla sola anzianità del lavoratore. Deve invece fare riferimento a una serie di altri criteri, come il numero dei dipendenti, le dimensioni dell’attività economica e il comportamento delle parti. Questa apertura, sebbene mossa dal principio di equità, ha di fatto spalancato le porte a una valutazione soggettiva, senza che la Corte abbia imposto ai giudici un obbligo stringente di motivare in modo dettagliato i criteri seguiti per la quantificazione dell’indennità, una lacuna che spesso si traduce in decisioni difficilmente prevedibili per le imprese.
In quali casi di nullità scatta ora la reintegrazione?
La reintegrazione piena, la sanzione più temuta dalle imprese in quanto comporta il ripristino del rapporto di lavoro e il pagamento di tutte le retribuzioni perse, ha visto il suo campo di applicazione allargarsi a dismisura. Con la sentenza n. 22 del 2024, la Consulta ha stabilito che questa tutela non si applica solo nei casi in cui la legge sanziona “espressamente” un licenziamento con la nullità.
La tutela reintegratoria è stata estesa a tutte quelle numerose casistiche in cui un licenziamento può essere dichiarato nullo perché contrario a norme imperative, anche se non specificato dalla legge. Il problema è che questi casi di “nullità non espressa” sono tutt’altro che predeterminabili e restano costantemente esposti all’evoluzione dell’interpretazione giurisprudenziale. Un esempio concreto è la valutazione, rimessa al giudice, sulla congruità dell’ “accomodamento ragionevole” che il datore di lavoro deve adottare per i lavoratori con disabilità. L’assenza di parametri certi rende la decisione del giudice quasi impossibile da prevedere.
Cosa succede se il motivo economico del licenziamento è insussistente?
Uno dei capisaldi della riforma del 2015 è stato sovvertito in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ovvero quello legato a ragioni economiche o organizzative. La sentenza n. 128 del 2024 ha dichiarato incostituzionale la parte del Jobs Act che prevedeva solo una tutela indennitaria nel caso in cui il datore di lavoro non riuscisse a dimostrare in giudizio la reale esistenza del motivo economico.
Oggi, in una situazione del genere, il lavoratore ha diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro (seppur nella forma attenuata, che limita il risarcimento a un massimo di mensilità). Questo ribalta completamente l’intento del legislatore del 2015, che voleva escludere la reintegra per i licenziamenti economici. L’incertezza aumenta ulteriormente se si considera che per la violazione dell’obbligo di repechage (la ricerca di una ricollocazione del lavoratore) la sanzione è solo economica per i nuovi assunti, ma resta oggetto di interpretazioni variabili per i lavoratori protetti dal vecchio articolo 18.
Quando si applica la reintegra nei licenziamenti disciplinari?
Anche sul fronte dei licenziamenti disciplinari, la scure della Corte Costituzionale ha reintrodotto margini di incertezza. Con la sentenza n. 129 del 2024 è stato stabilito che la reintegrazione attenuata si applica anche quando il fatto contestato al lavoratore, pur esistente, è punito dalla contrattazione collettiva con una sanzione conservativa (cioè non espulsiva).
Il Jobs Act aveva tentato di superare le complessità del vecchio articolo 18, prevedendo in questi casi solo una tutela indennitaria. La Corte, invece, ha equiparato questa ipotesi a quella dell’insussistenza del fatto materiale, estendendo di fatto la portata della reintegrazione. Questo restituisce ai giudici il compito di interpretare i codici disciplinari aziendali, spesso pieni di terminologie vaghe come “insubordinazione lieve” o “negligenza”, per decidere se applicare o meno la sanzione più grave per il datore di lavoro, in un quadro di assoluta imprevedibilità.
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