25 Agosto 2025
Chi ha paura degli Ogm. Se la scienza non ha un posto a tavola


Se guardiamo alla storia, scopriamo che parlare di prodotti nazionali e tradizionali italiani vuol dire parlare di innovazione, almeno di quella del passato. Pomodoro, mela, ciliegia, melanzana, patata, mais, riso, grano e agrumi, che percepiamo come parte della nostra identità nazionale e che negli anni hanno guadagnato certificazioni di provenienza e qualità, hanno un fattore in comune: non sono originari dell’Italia e nemmeno dell’Europa. Questi frutti della terra, così come li conosciamo oggi, sono in realtà frutto (anche) di decenni di sperimentazione sul campo, di adattamento e miglioramento genetico, tramite incroci, innesti, impianti di colture “aliene” in terreni dove non si erano mai viste prima. In un punto o nell’altro della nostra storia hanno rappresentato un’innovazione rispetto a quello che per natura crescerebbe sul territorio italiano.

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Ogni tappa del progresso agricolo è stata possibile grazie a intuizioni scientifiche, osservazioni empiriche e sperimentazioni sul campo, anche molto prima che il metodo della scienza venisse definito e codificato. Durante il corso dei secoli, l’uomo ha affinato sempre di più le sue tecniche di selezione, fino a diventare capace di intervenire direttamente sul genoma delle piante, per renderle più nutrienti e più resistenti ai fenomeni naturali, ai parassiti, alle malattie, in modo che necessitassero di meno trattamenti con agrofarmaci.

Negli anni, ho notato che questi argomenti risultano tanto più divisivi, e tutto ciò che è percepito come “nuovo” genera tante paure immotivate, quanto più le evidenze scientifiche sono invece chiare nel mostrare che non c’è nulla da temere. A fronte di una scoperta dal potenziale così ampio e rivoluzionario come il miglioramento genetico delle colture, in molti (anche a livello politico e legislativo) hanno preferito alimentare narrazioni basate su falsi miti che contrastano i dati scientifici, per creare una contrapposizione inesistente fra i “tradizionali” prodotti Made in Italy che non hanno eguali al mondo e i “pericolosi” Ogm frutto dell’innovazione genetica. Guardandosi bene, però, dallo spiegare che in realtà queste tecniche si limitano a perfezionare un procedimento intrinseco alla pratica dell’agricoltura, e potrebbero aiutarci a tutelare molte nostre varietà tradizionali dai cambiamenti climatici e da parassiti e malattie venute da lontano.

L’autrice, docente della Statale di Milano, è senatrice a vita dal 2013. È editorialista di d. 

Queste campagne mediatiche incentrate sulla paura, mirate a rendere i cittadini diffidenti verso una tecnica che non ha nulla in sé di pericoloso, hanno fatto sì che, a partire dai primi anni Duemila, l’Italia decidesse di tirarsi fuori da un filone di ricerca pieno di potenziali opportunità, in cui, fino ai Novanta, era scientificamente all’avanguardia. Oggi, il 76% del cotone e il 72% della soia che si coltivano e commerciano nel mondo sono Ogm, come pure il 34% del mais, e il paradosso è che in Italia questo mais possiamo acquistarlo liberamente – anzi dobbiamo, altrimenti la nostra zootecnia collasserebbe – dalle imprese agricole straniere, soprattutto per farne mangimi per gli animali da cui ricaviamo i nostri formaggi e salumi Dop, mentre vietiamo ai nostri imprenditori di coltivarlo e di poterlo commerciare, ottenendo raccolti e guadagni migliori.

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In nome dell’ideologia gastronazionalista, l’Italia non solo ha negato ai propri imprenditori la libertà di coltivare – sulle loro terre e con le loro risorse – varietà geneticamente migliorate, ma ha inferto colpi gravissimi alla propria ricerca pubblica e persino a quelle stesse produzioni tipiche che pretende di voler tutelare. Impedire la sperimentazione in campo aperto ha significato condannare il Paese all’arretratezza, ostacolando l’innovazione e lasciando indietro proprio chi lavora per il nostro futuro.

Senza poter beneficiare delle modifiche genetiche messe a punto dai nostri ricercatori, ad esempio, i pomodori San Marzano e i limoni Femminello Siracusano continueranno a soccombere a parassiti e malattie. Possiamo solo auspicare che, man mano che gli effetti del cambiamento climatico e degli sconvolgimenti geopolitici nel mondo ci colpiranno più duramente, la politica italiana confermi la propria timida apertura almeno alle Tea, o “tecniche di evoluzione assistita”. Si tratta delle nuove biotecnologie vegetali che, applicando la tecnologia Crispr, consentono di modificare il Dna delle colture in maniera indistinguibile da quanto avviene già in natura, ma col vantaggio di sapere esattamente dove sono apportate quelle modifiche e quali effetti avranno. Dal 2023 gli scienziati italiani possono finalmente contare su un iter semplificato per la sperimentazione in campo delle Tea. Peccato che sia ancora una misura fragile, a termine, che se non rinnovata scadrà il 31 dicembre 2025, anziché un’apertura netta e duratura verso l’innovazione.

Se sul fronte dell’agricoltura il 2023 ha aperto uno spiraglio, su altri fronti ha segnato una chiusura totale. Sempre nel 2023, infatti, l’attuale Governo, mentre con una mano semplificava (un po’) la vita agli scienziati che si occupano di biotecnologie vegetali, con l’altra la complicava a quelli che studiano la possibilità di “coltivare” la carne in laboratorio, con l’obiettivo, tra l’altro, di ridurre o eliminare i problemi di ordine ambientale ed etico legati all’allevamento di animali a scopo alimentare. Mi riferisco alla legge che vieta la produzione e commercializzazione della carne coltivata, approvata due anni fa con grande clamore mediatico e dichiarata inutile pochi mesi dopo dalla Commissione europea. Inutile oggi, perché riguarda prodotti ancora non approvati in Europa; inutile domani, nel momento in cui l’immissione in commercio di quei prodotti sarà autorizzata dalla Commissione, perché basterà rivolgersi a un qualsiasi tribunale per vederla disapplicare, in quanto in contrasto con i trattati europei. L’unico effetto di questa “legge-manifesto” è stato creare, ancora una volta, un clima di incertezza legislativa ostile ai nostri ricercatori e imprenditori.

Costruire la nostra specificità nazionale sul rifiuto di qualsiasi progresso scientifico, elevando la carbonara o il prosciutto Dop a unici veri simboli dell’orgoglio italiano, significa dimenticare che ogni tradizione di oggi è stata una rottura della tradizione di ieri. Se vogliamo continuare a costruire la nostra tradizione, dobbiamo smettere di temere l’innovazione, dalla scienza alla tavola, e iniziare ad accoglierla come parte integrante della nostra cultura.



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