26 Agosto 2025
AI, in azienda è un flop? Ma il successo è possibile, ecco come


Serpeggia un dubbio in questo periodo: l‘AI nelle aziende è tanto fumo e poco arrosto, con pochi vantaggi misurabili?

Fa molto discutere in questi giorni il report The GenAI Divide: State of AI in Business 2025, realizzato dal MIT (Project NANDA). Dice che oltre l’80% delle organizzazioni ha testato strumenti come ChatGPT o Copilot, e quasi il 40% li ha già implementati in qualche forma. E nonostante investimenti stimati tra i 30 e i 40 miliardi di dollari, il 95% delle aziende non registra alcun ritorno misurabile. Solo una minoranza, il 5%, è riuscita a generare milioni di valore. È il fenomeno che gli autori chiamano GenAI Divide.

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Allora, è un disastro? A ben leggere, sarebbe sbagliato dire che l’AI generativa è un flop. La questione non è tanto tecnologica, quanto di buone scelte da fare e di cultura aziendale

Come è stato condotto lo studio Mit Nanda su AI in azienda

Il report si basa su una ricerca multi-metodo condotta tra gennaio e giugno 2025. Sono state analizzate oltre 300 iniziative pubbliche di AI, realizzate 52 interviste strutturate a executive e functional leaders e raccolte 153 risposte survey in quattro conferenze di settore. Il successo di un progetto è stato definito come deployment oltre la fase pilota con KPI misurabili a sei mesi.

Gli autori segnalano anche i limiti della ricerca, il campione non rappresenta tutti i settori o le aree geografiche, parte dei dati deriva da auto-dichiarazioni, la finestra di osservazione (sei mesi) può sottostimare i successi nel lungo periodo. Inoltre, Project NANDA non è un osservatore neutrale, sviluppa a sua volta protocolli per l’AI agentica (NANDA, MCP, A2A), elemento che può influenzare la prospettiva dell’analisi.

AI in azienda secondo lo studio Mit: adozione alta, trasformazione bassa

Il report evidenzia una contraddizione evidente. Gli strumenti di largo consumo, come ChatGPT o Copilot, hanno un’adozione altissima, l’80% delle aziende li ha testati o avviato un pilota, quasi il 40% li ha distribuiti in produzione.

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Sono però strumenti che migliorano soprattutto la produttività individuale, senza incidere davvero sul conto economico. Al contrario, i sistemi enterprise personalizzati o forniti da vendor specializzati hanno tassi di conversione bassissimi, valutati dal 60% delle imprese, portati in pilot dal 20%, ma implementati soltanto dal 5%. La causa principale è sempre la stessa, soluzioni fragili, poco integrate nei processi quotidiani, incapaci di apprendere e adattarsi. Anche a livello settoriale, solo tecnologia e media mostrano segni di reale disruption, mentre in settori come sanità, finanza, retail o energia non si osservano cambiamenti paragonabili a quelli prodotti in passato da altre tecnologie general purpose.

Il learning gap come barriera invisibile: tecnologia e competenze

La vera barriera all’adozione della GenAI non risiede soltanto nella qualità intrinseca dei modelli o nelle infrastrutture disponibili, ma in quello che lo studio definisce learning gap. La maggior parte delle soluzioni oggi in uso non è in grado di trattenere memoria, integrare feedback continui o adattarsi ai cambiamenti dei processi. Ne risulta uno strumento statico, che perde efficacia proprio quando servirebbero resilienza e capacità di evoluzione, come accade nei contesti mission-critical. Questo limite tecnico si intreccia però con un competence gap.

Molte imprese non dispongono ancora delle competenze necessarie per addestrare correttamente i sistemi, fornire dati contestualizzati, valutare criticamente gli output e ridisegnare i flussi di lavoro intorno alle nuove tecnologie. Non si tratta solo di abilità tecniche, ma anche di capacità manageriali e organizzative, servono figure in grado di tradurre le potenzialità dei modelli in risultati concreti, di misurare il valore prodotto e di guidare team eterogenei attraverso il cambiamento. Emerge così un paradosso ben documentato nel report.

I professionisti, abituati a usare con successo ChatGPT o Claude nella sfera personale, giudicano spesso gli strumenti aziendali come fragili, sovraingegnerizzati o poco flessibili. Per compiti semplici e immediati l’AI è preferita, ma quando il lavoro diventa complesso e di lungo periodo la fiducia torna all’essere umano: nelle interviste, nove volte su dieci l’opzione prescelta rimane il collega in carne e ossa. Superare il learning gap significa dunque agire su due fronti paralleli: sviluppare sistemi tecnologici capaci di apprendere e adattarsi e diffondere all’interno delle organizzazioni nuove competenze di AI literacy, valutazione critica e gestione del cambiamento. Solo combinando questi elementi la GenAI potrà smettere di essere un esperimento episodico e diventare un asset stabile per il business.

La shadow AI economy

Accanto ai progetti ufficiali, spesso bloccati o fermi allo stadio di sperimentazione, si è sviluppata una vera e propria economia parallela dell’AI. Il report lo definisce shadow AI economy. Si tratta dell’uso, da parte dei dipendenti, di strumenti personali, come abbonamenti privati a ChatGPT o Claude, per portare a termine compiti lavorativi in modo più rapido ed efficace.

I dati sono significativi, mentre solo il 40% delle aziende ha sottoscritto un abbonamento ufficiale a un LLM, il 90% dei lavoratori dichiara di servirsi regolarmente di soluzioni personali per il lavoro quotidiano. Questo fenomeno non è marginale, ma indica un cambiamento strutturale, i ritorni di produttività più evidenti non arrivano dalle iniziative top-down, ma dall’adozione spontanea e informale che procede dal basso. Da un lato ciò aumenta l’agilità e la capacità di risposta degli individui, dall’altro solleva interrogativi critici su sicurezza dei dati, governance e disallineamento tra pratiche individuali e strategie aziendali. In molti casi, infatti, il vero ROI della GenAI è emerso prima in queste zone grigie che nei progetti ufficiali, mettendo in luce la distanza tra il ritmo dell’innovazione tecnologica e la capacità delle imprese di incanalarla in processi strutturati.

AI in azienda: l’impatto sul lavoro

Sul fronte occupazionale, lo studio ridimensiona le narrazioni più allarmistiche. Non si osservano licenziamenti di massa, ma riduzioni selettive (5–20%) in aree già soggette a outsourcing e standardizzazione, come customer support, amministrazione e sviluppo software routinario. Il vero effetto riguarda le assunzioni, in settori come tecnologia e media oltre l’80% dei dirigenti prevede una riduzione dei volumi nei prossimi due anni. Parallelamente, cresce l’importanza dell’AI literacy come competenza richiesta ai nuovi assunti. Secondo l’analisi MIT Project Iceberg, citata nello studio, oggi il potenziale di automazione effettiva è solo del 2,27% del valore del lavoro statunitense, ma l’esposizione latente tocca i 2,3 trilioni di dollari e 39 milioni di posizioni. Una cifra che potrebbe concretizzarsi con lo sviluppo di sistemi dotati di memoria persistente e apprendimento continuo.

Mit Project Iceberg e architetture AI esistenti

Lo studio cita Project Iceberg per distinguere tra il potenziale di automazione effettiva oggi e quello latente nel medio periodo. Con gli strumenti attuali, la GenAI è in grado di automatizzare solo il 2,27% del valore del lavoro statunitense: un impatto reale, ma limitato. Se i sistemi acquisissero capacità di memoria persistente, apprendimento dal feedback e adattabilità ai processi, la quota di attività automatizzabili potrebbe crescere enormemente. In questo scenario l’“esposizione latente” toccherebbe i 2,3 trilioni di dollari di valore economico e coinvolgerebbe circa 39 milioni di posizioni lavorative. In altre parole, l’impatto dell’AI sul lavoro non va letto solo nel presente, dove gli effetti sono selettivi e circoscritti, ma anche nel potenziale futuro, strettamente legato alla capacità di superare il learning gap.

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Qui che si gioca la differenza tra un’adozione superficiale e un cambiamento strutturale. L’attuale architettura Transformer, introdotta nel 2017, è la base su cui si fondano tutti i grandi modelli linguistici odierni. Grazie al meccanismo di attenzione, ha reso possibile scalare enormemente la capacità di elaborare linguaggio naturale e di catturare relazioni contestuali tra miliardi di parametri. Questa architettura rimane intrinsecamente stateless: ogni interazione viene trattata come evento isolato, con una memoria limitata alla sola finestra di contesto.

Ciò spiega perché i modelli, pur brillanti in compiti di generazione testuale, non riescano a integrarsi stabilmente nei workflow aziendali o ad apprendere dall’esperienza. Questa rigidità rende oggi l’automazione effettiva pari a un modesto 2,27% del valore del lavoro statunitense. Attualmente i miglioramenti non mirano a sostituire il Transformer, ma a estenderlo. Si lavora su livelli di memoria persistente che vadano oltre la finestra di contesto, su architetture multi-agente capaci di coordinare diversi modelli specializzati e su approcci ibridi che combinano Transformer con moduli simbolici o reti di ragionamento strutturato. Solo con queste innovazioni sarà possibile trasformare l’“esposizione latente” stimata da Project Iceberg, 2,3 trilioni di dollari e 39 milioni di posizioni, in un impatto economico concreto.

AI in azienda verso l’Agentic Web

Guardando avanti, il report individua nella transizione verso l’Agentic Web il passaggio decisivo. Non si tratterebbe più di modelli che rispondono a prompt isolati, ma di agenti autonomi capaci di imparare, ricordare e coordinarsi tra loro attraverso protocolli come MCP, A2A e NANDA. In questo scenario, i sistemi potrebbero negoziare contratti, integrare API dinamicamente, eseguire transazioni via smart contract e ottimizzare catene di workflow multi-impresa. Un cambiamento paragonabile, per impatto, all’avvento del Web per editoria e commercio. Riteniamo sia necessario sottolineare un potenziale conflitto di interessi, lo stesso Project NANDA che firma lo studio è anche promotore dei protocolli che dovrebbero sostenere l’Agentic Web.

Questo aspetto non invalida i dati raccolti, ma suggerisce di leggere le conclusioni con spirito critico. In altre parole, la visione prospettata coincide in parte con la traiettoria tecnologica che NANDA auspica e sviluppa direttamente. La questione apre quindi un dibattito più ampio sul ruolo degli attori della ricerca quando sono anche protagonisti del mercato: quanto riescono a separare analisi empirica e advocacy? Un tema che resta cruciale per valutare l’evoluzione reale dell’AI agentica e la sua integrazione nelle imprese.

Il problema è come si adotta l’AI

Lo studio MIT mette in discussione alcune narrazioni mainstream sull’AI generativa che, pur molto diffuse, empiricamente non trovano al momento riscontro. Non si osserva una sostituzione massiva del lavoro, ma riduzioni selettive e circoscritte. L’adozione è effettivamente alta, ma la trasformazione reale è rara, sette settori su nove non mostrano cambiamenti strutturali.

Le grandi aziende non sono lente nell’adottare nuove tecnologie, anzi oltre il 90% ha esplorato seriamente soluzioni AI; il problema resta la difficoltà a scalarle.

Non sono la qualità dei modelli o le questioni legali i veri blocchi, bensì la mancanza di apprendimento e di integrazione nei workflow. Infine, contrariamente all’idea che costruire internamente sia la via migliore, i dati mostrano che i progetti in-house falliscono circa due volte più spesso rispetto alle partnership esterne. Questa cornice aiuta a capire che il problema non è nell’AI “in sé”, ma nelle modalità di implementazione e nel disallineamento tra aspettative e realtà.

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La formula magica per superare il GenAI Divide in azienda secondo lo studio Mit

Se si osservano le esperienze delle aziende che hanno già attraversato il GenAI Divide, emerge un insieme di principi ricorrenti che funzionano come una vera e propria formula magica.

1. Non costruire tutto internamente, ma comprare e co-sviluppare con partner esterni. I progetti sviluppati solo in-house falliscono due volte più spesso, mentre le partnership strategiche hanno tassi di successo doppi.

2. Partire da processi ristretti e ad alto valore, e poi scalare. Le aziende vincenti non attaccano da subito i workflow più complessi, ma cominciano da casi d’uso semplici e misurabili – revisione contratti, sintesi chiamate, automazione documentale – per poi espandere gradualmente.

3. Richiedere sistemi che imparino, ricordino e si adattino. Il problema non è la qualità del modello, ma il cosiddetto learning gap: la mancanza di memoria persistente e adattabilità. Le soluzioni agentiche sono quelle che generano ROI reale.

4. Integrare l’AI dentro i flussi esistenti. Se non si connette a Salesforce, al CRM o agli applicativi interni, nessuno lo usa. L’AI deve ridurre gli attriti, non crearne di nuovi.

5. Valutare i fornitori sui risultati di business, non sui benchmark tecnici. Non conta la demo più brillante, ma l’impatto su P&L: risparmi, riduzione BPO, aumento retention o conversioni. Le aziende che hanno successo trattano i vendor come partner di business, non come semplici provider SaaS.

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6. Empowerment dal basso, sponsorship dall’alto. I progetti efficaci spesso nascono dai power users che già sperimentano con ChatGPT o Claude. Sono i manager di linea a guidare l’adozione, con il supporto dell’executive sponsorship, non i laboratori centrali.

7. Concentrarsi sui ritorni nascosti del back office. Mentre il 50–70% dei budget va a vendite e marketing, i ritorni più consistenti arrivano da operations, procurement e finance, nel back office, dove l’automazione riduce drasticamente la dipendenza da BPO e agenzie esterne.

AI in azienda è una finestra che si chiude

Il messaggio finale è inequivocabile, le aziende hanno una finestra temporale di circa 18 mesi per dotarsi di sistemi “learning-capable”. Una volta che un’organizzazione avrà addestrato un tool sui propri workflow, i costi di switching diventeranno proibitivi. Restare sul lato sbagliato del GenAI Divide significa rischiare di investire in strumenti statici e incapaci di integrarsi, mentre i concorrenti consolidano un vantaggio competitivo difficile da colmare.

Il GenAI Divide non è un destino inevitabile, è una scelta strategica. Le organizzazioni che sapranno agire adesso definiranno la geografia dell’economia digitale post-pilota.

Il quadro che emerge dal report MIT NANDA è complesso ma altamente istruttivo. Da una parte ci sono narrazioni mainstream che hanno dominato il dibattito pubblico, l’idea che l’AI generativa sia sul punto di sostituire gran parte del lavoro umano o di trasformare in profondità ogni settore industriale.

Queste affermazioni, seppure suggestive, non trovano oggi conferma empirica: i dati mostrano trasformazioni circoscritte, effetti occupazionali selettivi e impatti concreti solo in pochi comparti. Dall’altra parte, emergono bias interni alle imprese, la convinzione che basti adottare strumenti generalisti per ottenere valore o che costruire internamente sia garanzia di controllo e successo.

Al contrario, lo studio documenta come i progetti in-house falliscano con frequenza doppia rispetto alle partnership esterne.

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La vera barriera dell’AI in azienda

La vera barriera non è tecnologica ma organizzativa e culturale. Il learning gap dei sistemi, incapaci di memorizzare, apprendere dal feedback e adattarsi, si combina con un competence gap delle imprese, spesso prive delle competenze tecniche e manageriali per integrare l’AI nei flussi reali.

Non sorprende allora che proprio nella shadow AI economy, fatta di utilizzi informali e personali di strumenti come ChatGPT, emergano i ritorni di produttività più immediati. Questo fenomeno segnala la distanza tra il ritmo di adozione individuale e la capacità delle organizzazioni di incanalarlo in processi strutturati e sicuri.

La lezione più rilevante è che alcune aziende riescono comunque a generare valore. Lo fanno seguendo una formula precisa, collaborare con partner esterni anziché reinventare tutto internamente; partire da workflow ristretti e scalabili; pretendere sistemi in grado di apprendere e adattarsi; integrare l’AI nei processi esistenti; valutare i fornitori sui risultati di business, non sulle demo; promuovere empowerment dal basso accompagnato da sponsorship dall’alto; e infine guardare ai ritorni nascosti del back office, più che alle iniziative di facciata sul marketing.

In sintesi, il GenAI Divide non è un destino inevitabile ma una scelta strategica. Le organizzazioni che sapranno liberarsi dai bias, rafforzare le competenze interne e adottare questa formula di successo saranno in grado di superare il fossato tra sperimentazione e valore reale. Quelle che rimarranno ancorate a narrazioni semplicistiche e implementazioni statiche rischiano invece di consolidare un ritardo difficile da colmare, proprio mentre si apre la finestra decisiva che definirà la geografia competitiva del prossimo decennio.




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