
La Germania è sull’orlo di una seconda recessione dopo avere corretto al ribasso tutte le stime di crescita presenti e passate. Il quadro politico non è così forte come lo è stato a lungo e nemmeno la scelta di fare nuovo debito sembra riuscire per ora a invertire la tendenza. La Francia è un Paese dove il prodotto interno lordo (Pil), al netto delle scorte, è fermo: si continua a produrre, ma le famiglie non consumano e le imprese non investono come dovrebbero. La Francia è sostanzialmente bloccata da quando sono finite le Olimpiadi, ha le finanze pubbliche fuori controllo e, come scrivono gli stessi giornali francesi, deve prendere atto che i suoi titoli sovrani sono meno credibili di quelli italiani.
D’altro canto, il bilancio del nostro Paese partiva da un deficit primario, al netto cioè della spesa per interessi, lievemente superiore a quello francese alla fine del 2022. Nonostante abbiamo esposto tutti i costi del superbonus nel deficit l’Italia è riuscita ridurre il deficit così tanto da raggiungere un avanzo primario di 9,6 miliardi negli ultimi dodici mesi. Parallelamente la Francia ha accumulato un deficit di circa 107 miliardi, sempre negli ultimi dodici mesi, e questa forbice gigantesca spiega perché i titoli decennali dei due Paesi hanno tassi di interesse convergenti dopo una lunga stagione nella quale noi pagavamo molto di più.
Ragazzi, tornate a Napoli: l’editoriale del direttore Roberto Napoletano
Questa convergenza è di sicuro un risultato storico per l’Italia, ma ai nostri occhi il rapporto resta ingiustificato perché oggi dovrebbe essere molto più favorevole a noi o, altrimenti, molto più sfavorevole per loro. Così come, anzi qui addirittura ancora di più, vale il medesimo ragionamento per le agenzie internazionali nei loro giudizi di rating o di prospettive sui due Paesi.
Se ci confrontiamo con l’Inghilterra scopriamo che la sua economia paga il conto salatissimo del disastro della Brexit. Ha un’inflazione che è quasi doppia della media europea e più che doppia rispetto alla nostra. I tassi di interesse inglesi sono superiori a quelli italiani, alzi la mano chi lo avrebbe immaginato, così come anche i tassi americani sono superiori a quelli italiani. Proviamo a riassumere: sui titoli di Stato decennali l’Italia ha abbassato lo spread a 83 con la Germania, la Francia è a un passo a 70, così come il Canada a 71, gli Stati Uniti sono a 153 e il Regno Unito a 197.
Diciamo le cose come stanno. Con un deficit in forte ascesa le grandi economie del mondo sono tutte caratterizzate da una situazione di finanza pubblica problematica o fuori controllo, siamo noi l’unico grande Paese che sta riducendo enormemente il deficit e da qui nasce l’eccezione italiana. Per capirci, nel 2024 abbiamo avuto la più grande riduzione della storia repubblicana e quest’anno lo abbassiamo ancora. Tanto è vero che già a fine 2025, salvo imprevisti che non si vedono all’orizzonte, potremmo finire al 3 per cento o poco sotto uscendo dalla procedura europea per disavanzi eccessivi già dal 2026 con un anno di anticipo rispetto a quanto concordato e, cioè, il 2027. Ovviamente quasi tutte le previsioni europee sull’Italia parlavano di 2028 o di 2029 riferendosi a un Paese che non esiste più e che storicamente arrivava in ritardo.
Una volta questa Italia aveva bisogno del vincolo esterno europeo per fare cose che avrebbe dovuto fare di suo. Oggi siamo davanti all’inedito di un’Italia che fa nettamente meglio delle altre grandi economie e a un inedito di Napoli e del Sud, con il suo sviluppo sbilanciato, che fanno ancora meglio. Sono due fatti che smentiscono gli stereotipi gemelli dell’Italia e di Napoli nel mondo. Perché è il mondo che oggi dice che l’Italia è un modello di finanza pubblica a cui gli altri debbono ispirarsi dopo averci fatto lezioni per una vita. Perché sono la stampa internazionale e, in genere, gli investitori globali a riconoscere la forza inedita della sponda Sud dell’Europa e a segnalare il dinamismo e la vitalità di Napoli città-mondo che non è più periferia, ma centro dei nuovi processi di crescita determinati dai cambiamenti della geopolitica e, di conseguenza, della geoeconomia.
Ci siamo assunti la responsabilità di dire “ragazzi, tornate a Napoli” perché il cambiamento già in atto, che è culturale, economico, universitario e capacità nuova di fare investimenti e innovazione, ha bisogno di talenti e di organizzazione e, come ho detto e ripetuto, si nutre di fatica e di ambizione perché si misura con ritardi strutturali pesanti ricevuti in eredità. Bisogna, però, crederci con determinazione e uscire per sempre dal piagnisteo e dagli stereotipi che tanto male hanno fatto e possono fare ai nostri giovani. Servono il massimo di sforzo collettivo e tante fiduce individuali contagiose per fare correre ancora di più il motore degli investimenti che è ripartito e crea lavoro buono. Già riconoscere questo dato di fatto aiuta a cambiare le cose infinitamente di più del solito consunto calendario di recriminazioni che porta solo a altre recriminazioni.
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