26 Agosto 2025
Economia Ue, il necessario adattamento


Il balletto negoziale riguardo i dazi statunitensi sulle importazioni dall’Unione europea (Ue) si è concluso a fine luglio con un accordo politico che prevede un’aliquota tariffaria massima del 15% su gran parte delle esportazioni europee, oltre a massicci impegni di spesa e investimento da parte dell’Ue. Alcuni hanno criticato aspramente il risultato delle negoziazioni, altri l’hanno definito il male minore date le circostanze. Questo dibattito ha però trascurato un punto cruciale: la contraddittorietà degli obiettivi dichiarati dal presidente Trump. Egli ha sostenuto di voler raggiungere tre traguardi: stimolare la crescita della manifattura interna, ridurre il deficit commerciale e aumentare le entrate fiscali a «spese» degli stranieri.

 

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Come vedremo, questi obiettivi sono in palese conflitto tra loro. Se gli esportatori riducessero i prezzi per «assorbire» i dazi, vi sarebbe un aumento delle entrate fiscali a «spese» degli stranieri, ma il limitato aumento dei prezzi al consumo non offrirebbe un incentivo alla produzione manifatturiera in America e le importazioni rimarrebbero elevate. Se, al contrario, gli esportatori non riducessero i listini, i prezzi al consumo aumenterebbero, creando un vantaggio per le imprese a espandere la produzione nei settori protetti, ma i consumatori locali si accollerebbero i dazi. Inoltre, gli investimenti nei settori protetti andrebbero a scapito di quelli oggi più efficienti e questo, insieme alla crescita dei prezzi dei beni intermedi importati, renderebbe la produzione meno competitiva. I deficit commerciali aumenterebbero, almeno nel breve termine.

 

La contraddizione tra questi obiettivi ha implicazioni importanti sulla negoziazione con l’Ue. Alcuni hanno sostenuto, per esempio, che la Commissione avrebbe potuto ottenere abbastanza agevolmente un’esenzione dai dazi per i vini doc italiani perché non vi è produzione americana di tali vini da proteggere. Un’osservazione corretta se i dazi mirassero ad aumentare la produzione americana dei beni protetti, meno stringente se essi fossero diretti ad aumentare le entrate. La dichiarazione congiunta Usa-Ue del 21 agosto, da cui si evincono esenzioni limitate (per ora) a pochissimi settori storicamente trattati in modo preferenziale, suggerisce che i dazi americani rispondano parzialmente alla logica di protezione settoriale che avrebbe favorito l’esenzione dei vini con indicazione geografica protetta. Una scoperta di questi giorni, non una informazione disponibile fin dall’inizio della negoziazione.

 

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Un ulteriore aspetto da considerare nel giudicare l’operato della Commissione è che, diversamente dalla norma, gli Stati Uniti non hanno avviato una trattativa per liberalizzare reciprocamente gli scambi, ma hanno introdotto unilateralmente delle misure restrittive annunciando la disponibilità a ridurne la portata in cambio di concessioni di varia natura. Per l’Ue, da sempre difensore del libro scambio e del multilateralismo, accettare di negoziare su questo piano rappresenta un’eccezione alla regola. Ma questa trattativa commerciale si innesta in una serie di delicati dossier in cui Ue e Stati Uniti hanno posizioni differenziate. Si pensi alla spesa militare nella Nato, alla tassazione delle imprese multinazionali, alla regolamentazione del settore digitale, alle relazioni con la Cina e ovviamente ai conflitti Israele-Palestina e Russia-Ucraina. Il timore di ritorsioni americane sui vari dossier non può essere sminuito. Gli altissimi dazi imposti dagli Stati Uniti a India e Brasile per ragioni politiche mostrano la sovrapposizione dei piani economici e non nella strategia negoziale americana.

 

L’unilateralismo americano non arriva come un fulmine a ciel sereno. L’introduzione del Rapporto Draghi lo testimonia: «In un mondo geopolitico stabile, [noi europei] non avevamo motivo di preoccuparci della crescente dipendenza da paesi che pensavamo sarebbero rimasti nostri amici. Ma le fondamenta su cui abbiamo costruito stanno ora vacillando». Un chiaro avvertimento del rischio di un cambiamento radicale dell’ordine mondiale a opera della potenza egemone.

 

Per affrontare un tale mutamento, credo possa essere utile che l’Ue si ispiri alla lotta al cambiamento climatico, che prevede strategie sia di adattamento sia di mitigazione. L’adattamento richiederebbe all’Ue di accettare minori commerci con gli Usa, sostenere la domanda interna, potenziare gli scambi con altri paesi e rendersi meno vulnerabile alla coercizione economica. La mitigazione richiederebbe di convincere gli americani, minacciando ritorsioni commerciali oppure negoziando miglioramenti e blandendo il presidente Trump, a ripensare la propria posizione.

 

La via finora intrapresa dall’Ue è stata quella della mitigazione, blandendo il presidente e negoziando il «male minore». L’adattamento avrebbe richiesto tempi troppo lunghi e la minaccia di ritorsioni non sarebbe stata credibile con la guerra alle porte e la dipendenza militare dagli Stati Uniti. La solo mitigazione, però, consente di reagire esclusivamente di rimessa e lascia esposti agli umori altrui. È quindi opportuno che l’Ue intraprenda anche delle iniziative di adattamento, concentrando le limitate risorse su misure volte a trasformare l’economia europea nel medio termine. Non sarà un percorso facile perché le voci a difesa dell’esistente sono più forti di quelle a favore del cambiamento. La discussione sul prossimo bilancio pluriennale dell’Ue rappresenta una cartina di tornasole dei progressi in questo processo.

 

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*Professore ordinario di Politica economica all’Università di Trento





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