27 Agosto 2025
Meeting, quale ruolo per le imprese in un mondo che cambia


All’incontro in corso a Rimini un evento dedicato al “Capitalismo malato”. Il professor Luigi Zingales: “L’errore fondamentale delle aziende oggi è pensare solo ed esclusivamente alla massimizzazione del profitto” Il richiamo di Draghi all’Europa, il rapporto con gli azionisti

Guglielmo Gallone – Rimini

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Un tempo le grandi imprese erano radicate nella società: gli stabilimenti erano geograficamente concentrati, i lavoratori e persino gli azionisti erano parte della comunità locale, così come dirigenti e consiglieri vivevano tra le persone e con le persone, rendendosi conto delle necessità e quindi delle operazioni imprenditoriali migliori da compiere. Oggi non è più così: gli stabilimenti sono diffusi in tutto il mondo, le catene di lavoro si sono allargate a dismisura, lavoratori, investitori e consiglieri sono distribuiti globalmente, i dirigenti vivono in comunità recintate, quartier generali lontani dal cuore in cui pulsa la vita pubblica, quella della società, della quotidianità. Cosa è avvenuto nell’arco di questo tempo? Come sta cambiando il ruolo delle imprese nella società? E di, riflesso, quale dev’essere il ruolo dello Stato? Dopo anni di sfrenato liberalismo che hanno portato a una maggiore connessione e digitalizzazione sotto l’ombra della globalizzazione, è troppo tardi per tornare a regolamentare, a favorire una politica industriale e commerciale capace di non abbattere la crescita delle imprese né di generare uno Stato imprenditore, bensì uno Stato stimolatore dei processi produttivi?

“Il capitalismo malato”

Si sa, il Meeting di Rimini da 46 anni apre domande, spalanca riflessioni sul modo in cui cambia il mondo e, in particolare, l’Italia, senza avere la pretesa di dare risposte. Mentre le giornate organizzate da Comunicazione e liberazione giungono a conclusione, possiamo dire che ciò è stato vero specie quest’anno, in un’edizione dedicata a “costruire con mattoni nuovi nei luoghi deserti”, e in particolare nel panel che ieri ha ospitato il professor Luigi Zingales, economista presso l’università di Chicago, moderato da Mattia Ferraresi, giornalista del quotidiano italiano “Domani”, accompagnato da Emilio Colombo, professore di politica economica presso l’università Cattolica del Sacro Cuore, e Piergiovanna Natale, docente di economia politica presso l’università di Milano Bicocca.

Se si pensa solo alla massimizzazione del profitto

Dopo aver attraversato esempi evidenti che hanno mostrato tanto lo strapotere delle multinazionali nonché le loro responsabilità di fronte a gravi casi di cronaca, il professor Zingales ha notato come «l’errore fondamentale delle aziende oggi è pensare solo ed esclusivamente alla massimizzazione del profitto. Ciò richiede un rapporto privilegiato non con gli operai né tantomeno con i clienti e quindi con la comunità di persone, bensì con gli azionisti. Spesso i cosiddetti headquarters delle aziende sono tanto lontani dalle fabbriche che i dirigenti di azienda neanche sanno come viene fatto un prodotto né chi sono gli operai. Tutto ciò ha reso più normale, più facile comportarsi in maniera indecente. Ecco cosa intendo quando dico che è in atto un processo di disinclusione dalle aziende». Perché, ha aggiunto Zingales citando il teorema della separazione di Milton Friedman, «gli azionisti possono avere obiettivi che vanno oltre il profitto. Nel 1970 Friedman affermava che un dirigente aziendale è un dipendente dei proprietari dell’impresa, ha una responsabilità diretta verso i suoi datori di lavoro e questa responsabilità è condurre l’attività in conformità ai loro interessi, che generalmente sarà questa: fare quanti più soldi possibile».

Il caso dell’Europa

Un rischio enorme se si pensa al ruolo sempre crescente di certi attori nel contesto contemporaneo. I rischi si stanno concretizzando proprio in questo cambiamento d’epoca segnato da conflittualità e da crisi di multilivello, geopolitiche ed economiche, dove se da un lato lo Stato sembra incapace di rispondere in modo realista, dall’altro le imprese sono spesso colte in contropiede, specie rispetto ad altri colossi internazionali. Non si può non pensare all’Europa: qui vengono in mente le grandi imprese del mondo automobilistico che, sebbene da un lato abbiano scontato scelte pubbliche incapaci di dettare un orizzonte chiaro – basti pensare alla scelta, messa in discussione solo pochi mesi fa, di convertire tutto il comparto auto europeo all’elettrico entro il 2035 –, dall’altro si sono dimostrate altrettanto incapaci di saper intercettare, anticipare e realizzare un cambiamento orientato al progresso che fosse in linea tanto con le sfide tecnologiche ed energetiche quanto con gli interessi dei consumatori. Il risultato è drammatico: la crisi del settore automobilistico, il settore più importante per il Vecchio Continente, sembra inarrestabile specie se paragonata all’avanzata delle grandi aziende asiatiche, in particolare di quelle cinesi. L’Europa ha perso e continua a perdere competitività.

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Un richiamo alle parole di Draghi

A differenza degli Stati Uniti in cui spiccano grandi colossi economici, nel Vecchio Continente, riprendendo Zingales, la difficoltà tanto dello Stato nell’accompagnare le imprese quanto delle aziende nel sapersi inserire in un mondo che cambia ha generato una vera e propria incapacità nel far crescere e maturare grandi imprese. Su questo, sempre al Meeting di Rimini, si era espresso sabato anche l’ex primo ministro italiano Mario Draghi, facendo riferimento a un altro mercato strategico, quello dei semiconduttori: «I chip sono essenziali per la trasformazione digitale che sta avvenendo oggi – ha detto Draghi – ma gli impianti per produrli richiedono grandi investimenti. Negli Stati Uniti l’investimento pubblico e privato è concentrato in un piccolo numero di grandi fabbriche con progetti che vanno da 30 a 65 miliardi di dollari. Invece in Europa la maggior parte della spesa ha luogo a livello nazionale, essenzialmente attraverso gli aiuti di Stato. I progetti sono molto più piccoli, tipicamente tra 2 e 3 miliardi di dollari e dispersi tra i nostri paesi che hanno sempre priorità differenti. La Corte dei Conti Europea ha già avvertito che ci sono ben poche probabilità che l’Unione Europea raggiunga il suo obiettivo di aumentare per il 2030 la quota di mercato globale in questo settore al 20% da meno del 10% di oggi».

Come riportare moralità alle imprese

Affinché si ribalti questa realtà, il professor Zingales, stimolato da Colombo e Natale, ha suggerito un approccio realista: non si può demonizzare né marginalizzare gli azionisti, bensì «li si può invitare a un approccio che ne mantenga la centralità ma che allo stesso tempo li costringa, attraverso gli sforzi del settore pubblico, a compiere scelte pubblicamente morali. Così la società può reagire, così si può riportare la moralità nelle imprese». Serve insomma «una combinazione tra democrazia azionaria, che da sola non è sufficiente, e regolamentazione pubblica», ha detto Zingales. Ma affinché ciò avvenga non si può non pensare alla qualità e alla competenza di chi prende certe scelte: un mondo che cambia tanto velocemente è alla disperata ricerca di politici motivati e imprenditori capaci di saper orientare sé stessi e la realtà in cui vivono. Altrimenti sì che restituiremo solo l’immagine di un capitalismo malato e di un mondo, specie occidentale, in affanno.



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