12 Luglio 2025
Srebrenica, il giorno del dolore all’ombra del soft power turco


«Europa svegliati! Siamo nel XXI secolo: bisogna agire per la pace. Guardate all’Ucraina, alla Palestina, si sta risvegliando il fascismo» dice Munira Subashich alla fine del suo intervento. Il velo bianco sulla lunga tunica blu incornicia un viso di cuoio indurito dalle rughe dove gli occhi brillano di forza nera. È la presidentessa dell’associazione Madri di Srebrenica: il gruppo che si è opposto a brutto muso all’ingresso nell’ex base dell’Onu di Potochari del generale francese Philippe Morillon, comandante della forza di interposizione Onu per la Borsnia Erzegovina (Unprofor) dal settembre 1992 al luglio 1993. Lo stesso gruppo che ha denunciato all’Aja i Caschi blu olandesi e che non ha smesso di protestare fino alla condanna. «La cosa più importante è che il mondo capisca davvero» ci dice, mentre la fila delle autorità si incammina in processione verso il cimitero antistante, «nessuno deve dimenticare, ma non per noi, per tutti. Anche per quelli di adesso. Ora basta domande, è il momento del raccoglimento».

TUTTI LA SALUTANO e lei non risparmia carezze con la mano pesante, da lavoratrice, e sorrisi pieni di dolcezza. Dopo le carezze, spesso, le donne della prima fila si risistemano la pettinatura, gli uomini palesano disagio, come se i loro occhi chiedessero chi è quella vecchia intabarrata che tratta loro, i potenti d’Europa, come bambini? La mattinata è di quelle importanti: primi ministri, presidenti, ambasciatori e alti funzionari per celebrare la giornata in ricordo delle vittime del genocidio di Srebrenica, istituita ufficialmente nel 2024. Al primo colpo d’occhio si capisce chi si è voluto intestare la rinascita dell’identità mussulmana nella Bosnia post ’95. La mezzaluna con la stella turca è dovunque. Dai cartelli fuori dal memoriale che ricordano chi ha finanziato parte del progetto, ai cappellini e le magliette donate ai partecipanti alla Marcia della vita, fino ai chioschetti per strada che vendono le bandierine.

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DA ANKARA Erdogan ha registrato un videomessaggio nel quale insiste sulla necessità di andare avanti, ma ricorda i palestinesi e ciò che succede a Gaza, rivendicando indirettamente e ancora una volta il ruolo di sultano difensore dell’Islam, un tempo ottomano. Grandi applausi dai rappresentanti dei paesi musulmani. Poco prima sul palco era intervenuto il presidente del parlamento turco, Numan Kurtulmus, e da due giorni per i padiglioni si aggira il direttore dell’ente per la cooperazione turca nel mondo (il Tika), Serkan Kayalar. Il quale ci dice quanto sia importante per il suo Paese che in Bosnia ci sia la pace mentre viene riverito da tutti i rappresentanti locali. La Turchia investe in Bosnia, esercita soft power con la costruzione di moschee, con le borse di studio, i finanziamenti alle imprese. Il tutto ben segnalato e ben propagandato.

Anche l’Ue e i singoli stati del continente dal 1995 in poi hanno inviato in Bosnia centinaia di milioni di euro, ma queste bandiere non si vedono. Come se sopravvivesse ancora una certa vergogna per aver lasciato che la guerra in Bosnia dilagasse con le conseguenze che conosciamo.

IL DISCORSO del presidente del Consiglio dell’Ue, Antonio Costa, è emblematico: «Affinché questo sia un Paese libero dall’odio e dalla violenza, speranza per figli e nipoti, l’Ue per voi può essere uno spazio sicuro, inclusivo e rispettoso delle diversità». Parole che Costa può dire ai suoi colleghi, ma che fuori dal memoriale non hanno valore. Inazione, senso di colpa mascherato con i finanziamenti e promesse di un futuro migliore senza impegno. I discorsi sono tutti sullo stesso tono, tranne l’anziana Munira e il presidente bosgnacco della federazione bosniaca, Denis Becirovic, che si scaglia duramente contro il premier serbo Vucic e l’aggressività dei suoi funzionari. «Sono loro che impediscono la pace nella regione» dice e invoca il cambio di regime sperando nelle proteste nate a Novi Sad.

FUORI LA LITANIA della cerimonia islamica riempie l’aria. Nel cimitero di Potochari sfilano le autorità fino al cubo di marmo con la scritta «Srebrenica luglio 1995», depongono un fiordaliso che due ragazze velate gli porgono prima dell’ultima curva e qualcuno si fa scattare un selfie dagli assistenti mentre ostenta commozione. Quest’atteggiamento affettato contrasta con la folla che si inginocchia ripetutamente alle parole dell’imam. I militari che si tolgono il cappello – lo depongono a terra e si inginocchiano fino a toccarlo con la testa – colpiscono perché in genere non si è abituati a vedere un bianco, spesso biondo, senza barba lunga che compie questi riti e perché i militari sono quasi sempre una casta a parte rispetto al clero. Ma non oggi, il messaggio è chiaro: «ci uccisero perché mussulmani, ora guardateci, questi siamo noi e non ci avrete di nuovo». È la nuova rivendicazione identitaria dei bosgnacchi, un cane che si morde la coda che fornisce materiale propagandistico ai serbi per gridare alla minaccia islamica.

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ENTRANO LE BARE, lasciate le ultime due notti all’aperto: sono piccole, strette e lunghe perché non contengono corpi ma resti messi insieme dai medici legali. Una folla frenetica le scorta fino alle fosse e poi, a turno, si lavora con la pala. Oggi è la volta di Mujic Hariz, 19 anni, e Omerovic Hasib, 34 anni. Hanno le lapidi provvisorie di plastica, presto arriverà il cippo di marmo e, come per tutta la collina, la seconda data sotto il nome sarà 1995.



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