L’articolo “The Refugee Millionaires You’ve Never Heard Of” della rivista online WorldPopulationReview.com riporta dati che dimostrano come i rifugiati non siano soltanto persone in cerca di sopravvivenza, ma motori di sviluppo: fondano imprese, creano lavoro, attivano filiere. È una chiave di lettura che funziona anche nello sport, dove lo status di rifugiato non si esaurisce nel riscatto individuale ma genera impatti sociali ed economici misurabili: opportunità per i giovani, professioni per tecnici e operatori, rigenerazione di comunità attorno a centri sportivi e tornei.
Il punto più visibile di questa narrazione è l’IOC Refugee Olympic Team, creato dal CIO nel 2015 e al debutto a Rio 2016 con 10 atleti. A Parigi 2024 la squadra è cresciuta fino a 36–37 atleti, simbolo di speranza per oltre 100 milioni di persone in fuga; tra i risultati più significativi, la storica medaglia assicurata dalla pugile Cindy Ngamba, primo podio per un atleta del Team Rifugiati. Questi traguardi non sono solo icone mediatiche: sono leve di integrazione e ispirano investimenti pubblici e privati nei programmi di inclusione attraverso lo sport.
Accanto all’élite olimpica, c’è l’infrastruttura quotidiana fatta di progetti locali. Il Sistema ONU–CIO lavora da anni per usare lo sport come strumento di protezione e sviluppo: la Sport for Refugees Coalition, coordinata dalla Olympic Refuge Foundation con UNHCR e partner, dichiara di aver raggiunto più di 445.000 giovani colpiti dallo sfollamento in oltre 80 Paesi, mentre l’UNHCR Sport Strategy 2022–2026 documenta approcci, evidenze e obiettivi per portare attività fisica e competenze sociali nei contesti di accoglienza. Sono numeri che raccontano filiere di allenatori, mediatori, educatori e fornitori locali: occupazione e competenze che restano nei territori.
In Italia, la FIGC ha consolidato programmi dedicati (tra cui RETE! Refugee Teams e la partecipazione alla Unity EURO Cup), che mescolano attività tecniche e percorsi educativi. La federazione rivendica questo impegno in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, mentre reti civiche come Liberi Nantes portano avanti iniziative continuative sul territorio (es. il progetto REPLAY – Refugees PLAY United a Roma). Anche qui l’effetto è duplice: inclusione e costruzione di micro–economie legate alla pratica sportiva.
Il parallelo con l’imprenditoria citata nella news di partenza regge anche sui dati economici: quando le politiche sono abilitanti (diritto a muoversi, studiare, lavorare), i rifugiati attivano reti produttive. Il caso Uganda è spesso richiamato in letteratura: la legislazione riconosce libertà di movimento e diritto al lavoro/impresa, e gli studi mostrano come modelli inclusivi favoriscano occupazione, mercati locali e formazione. È la stessa logica che, nello sport, trasforma un campo da gioco in un hub di servizi: corsi per allenatori, manutenzione impianti, eventi che muovono pubblico e piccole economie urbane.
Infine, la cornice “sport come infrastruttura sociale” si sta professionalizzando: bandi e micro–grant specifici (come quelli lanciati dalla Sport for Refugees Coalition nel 2025) puntano a scalare progetti che uniscono pratica sportiva, formazione e accesso al lavoro. Per i territori e le federazioni è un’agenda concreta: facility management, partnership scolastiche, monitoraggio di impatto. Per i media sportivi, è una storia da seguire con continuità, perché spiega come un gol o un jab possano valere molto più del risultato: possono cambiare il perimetro economico e culturale di una comunità.
Fonti principali (selezione): IOC – Refugee Olympic Team; Olympic Refuge Foundation/Sport for Refugees Coalition; UNHCR – Sport Strategy 2022–2026; FIGC – progetti per rifugiati; Liberi Nantes – REPLAY; letteratura su politiche inclusive e lavoro/impresa in Uganda.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link