
Il Global Compact Network è un’iniziativa volontaria dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. La rete è stata lanciata a New York nel 2000. Da allora oltre 20mila aziende di 167 Paesi hanno aderito, impegnandosi a contribuire a una globalizzazione sostenibile e basata sulla cooperazione internazionale. Abbiamo intervistato Daniela Bernacchi, executive director di UN Global Compact Network Italia, sul pacchetto Omnibus con cui la Commissione europea intende semplificare e ridurre gli oneri amministrativi per le imprese in materia di sostenibilità. Snellendo in particolare la direttiva sulla rendicontazione di sostenibilità (Csrd) e quella sulla due diligence (Csddd), oltre alla tassonomia e al meccanismo di adeguamento della CO2 alle frontiere.
La necessità di semplificare le normative tiene presente la necessità di politiche sulla sostenibilità o la sta eclissando per dare maggior spazio alla competitività?
Secondo me tiene presente assolutamente il tema della sostenibilità. Del resto non è che le due cose non siano compatibili, anzi la competitività cresce moltissimo nelle aziende che hanno piani industriali strategici e piani di sostenibilità integrati. Probabilmente c’è stato un momento di over regulation e un dataset molto complesso. Questo ha creato grossissime difficoltà implementative. Omnibus nasce proprio dalla necessità di rendere fattibile anche una rendicontazione responsabile per le imprese.
Le aziende che hanno già investito sulla prima versione della Csrd in maniera volontaria possono mantenere un livello di approfondimento superiore. Questo significa che si può avere un livello di dettaglio crescente anche in maniera volontaria. Anzi, io toglierei la sottolineatura sulla obbligatorietà, perché questo sposta l’interesse sulla compliance alle disposizioni, mentre la scelta di essere responsabili e trasparenti è una scelta strategica. Se le aziende arrivano a essere preoccupate solo di ottemperare a degli obblighi, il rischio è di avere un esercizio meramente compilativo, mentre la rendicontazione deve essere un supporto strategico alle aziende per prendere decisioni e quindi per avere una migliore analisi e gestione del rischio.
Una delle modifiche più significative del pacchetto Omnibus riguarda la drastica riduzione del numero di aziende soggette alla rendicontazione di sostenibilità (Csrd): la soglia passa da 250 a mille dipendenti. Cosa comporta questo rispetto alla disponibilità e la completezza di dati da fornire a potenziali investitori?
Questo è sicuramente un aspetto molto delicato. Per la Csrd si passa da circa 50mila imprese a 11mila, che sono ancora meno di quelle che includeva la Non Financial Reporting Directive. Sicuramente su tratta di un tema a cui prestare attenzione
Al contempo una maggiore qualità può essere fatta in maniera volontaria, se c’è la cultura della sostenibilità, e gli investitori possono decidere di fare audit sull’accountability dell’impresa prima di fare gli investimenti. Questo è molto vero in iniziative di partenariati o nell’ingresso a equity di programmi e di progetti multi-stakeholder. Quindi ci sono gli strumenti perché un investitore istituzionale possa capire se un’azienda è coerente con quello che dice oppure no. Sono strumenti addizionali.
Dall’altro lato la nostra aspettativa è che chi ha iniziato un percorso strutturato di rendicontazione non faccia un passo indietro. Noi abbiamo diverse aziende che rientrano nella Csrd che hanno fatto quest’anno per la prima volta la rendicontazione: hanno cambiato i database, fatto investimenti IT, utilizzato consulenti per i Kpi, assunto personale… queste aziende non tornano indietro, perché hanno fatto un investimento che è un patrimonio anche futuro per l’azienda.
Il pacchetto Omnibus, modificando e rinviando gli obblighi, può influenzare o alterare la competitività di aziende europee già all’avanguardia nell’integrazione delle pratiche sostenibili nel loro modello di business?
Secondo me è un vantaggio competitivo averlo fatto. Una ricerca McKinsey ci dice che le aziende che hanno piani strategici di sostenibilità hanno due punti percentuali in più di rendimento per gli azionisti. Un altro studio di Unioncamere pubblicato lo scorso anno ci dice che c’è un incremento di fatturato, occupazione ed export di circa sette punti percentuali. L’ultima ricerca dell’Istat uscita il 5 maggio dice anche che c’è una crescita del valore aggiunto per le aziende fortemente ingaggiate in sostenibilità.
Il vantaggio è sull’esterno e sull’interno per l’impresa, e questo farà sì che chi ha preventivamente lavorato su questi piani avrà un vantaggio competitivo. Per questo non mi piace opporre sostenibilità e competitività: è esattamente il contrario, le aziende che sono sostenibili sono più competitive. È un criterio di attrazione di capitali, investimenti, competenze e talenti. I giovani laureati o che hanno esperienze di 2 o 3 anni sono attratti da aziende sostenibili, che hanno attenzione anche alla dimensione del welfare, dei diritti umani eccetera. Non ha senso tornare al business as usual perché si perde competitività.
Il pacchetto Omnibus propone di limitare le informazioni sulla sostenibilità che le grandi aziende possono richiedere alle piccole imprese nelle loro catene del valore e di concentrare la due diligence sui partner commerciali diretti (Tier 1), estendendosi oltre solo in presenza di “informazioni plausibili” su impatti negativi. Che impatto potrebbero avere queste modifiche?
Ancora non si può dire con certezza quali siano gli impatti perché la normativa è tuttora in discussione. Sicuramente ci sono delle aree di attenzione, come fermarsi al Tier 1. Oppure avere come timing ogni cinque anni e non ogni anno. Anche questo ci ha lasciati un po’ perplessi, così come la non obbligatorietà di cambiare fornitore a fronte di criticità.
Detto questo, ben prima delle direttive c’erano i Principi guida delle Nazioni Unite del 2011. Ci sono le linee guida Ocse del 2010 (rinnovate nel 2023) che parlano proprio di filiere e di catena del valore in maniera più estesa rispetto al 2010. Se un’azienda si è già strutturata, non ha ragione di tornare indietro. Se invece non l’ha mai fatto, ovviamente si sente più rilassata a fermarsi al Tier 1. Però si tratta di una questione di posizionamento.
Dopodiché noi sosteniamo che gli obblighi per le aziende debbano essere fattibili. Aziende che hanno fino a sei-sette livelli di Tier come possono garantire al 100% che non succeda nulla lungo la filiera? Quello che possono fare è avere dei piani di mitigazione strutturati e, qualora ci fossero degli impatti negativi, avere una buona e strutturata politica di remedy. In generale sono sempre molto scettica quando vedo che un’azienda non ha avuto mai nessun problema per nessuna casistica. Invece reputo che stiano lavorando bene le aziende che in maniera responsabile riportano anche gli impatti negativi e hanno piani strutturati di remedy molto estesi. Perché non è possibile il rischio zero, soprattutto quando si allarga la catena di fornitura.
Quello che bisogna fare è lavorare sulla mitigazione del rischio. Perché la due diligence è il controllo, ma di quanto già fatto. È la fotografia di quello che ha messo o non ha messo in piedi. L’azienda deve lavorare in prevenzione nella selezione dei fornitori e dei partenariati, nel process engineering.
Il pacchetto Omnibus allenta i requisiti per i piani di transizione climatica nella Csddd, mantenendo solo l’obbligo formale di adozione, ma non quello di “mettere in atto” le misure. Queste modifiche potrebbero avere conseguenze sulla decarbonizzazione delle imprese?
Noi ovviamente auspichiamo, se fosse possibile, che vengano reintrodotti i piani di transizione energetica come era originariamente. Detto questo, quando anche non lo fosse, già con l’analisi di doppia materialità i rischi finanziari legati al clima sono evidenziati molto chiaramente. Non è che se un’azienda non fa un piano di transizione energetica i cambiamenti climatici non vanno avanti di per sé. E i loro effetti comportano anche danni per le imprese. Quindi, le aziende, secondo me, dovrebbero portare avanti i piani di transizione climatica a prescindere, e lavorare sulla propria decarbonizzazione, sul ridurre l’impatto del fossile e contribuire a ridurre il riscaldamento del Pianeta. Perché comunque, al di là della singola normativa, la crisi climatica avanza e lo vediamo tutti i giorni.
Nel suo posizionamento rispetto al pacchetto Omnibus, il Global Compact Network Italia ribadisce l’importanza di un quadro regolatorio chiaro e condiviso e di un impegno continuo delle imprese nella sostenibilità. Qual è il vostro messaggio per le imprese che navigano in questa fase di transizione? Come continuerete a supportarle nell’integrazione dei dieci principi e nel reporting di sostenibilità, per assicurare che la sostenibilità rimanga autentica?
Il messaggio primario che mandiamo è di mantenere il punto o, come dicono i nostri colleghi americani, stick to principles, perché comunque le aziende della nostra rete hanno aderito dichiarando il rispetto dei 10 principi del Global Compact delle Nazioni Unite nelle quattro aree diritti umani, lavoro, ambiente e anticorruzione. Quindi mantenere l’impegno, innanzitutto. Se è possibile, alzare l’asticella dell’ambizione in maniera volontaria, perché questo rende da un lato l’azienda più competitiva e dall’altro fa bene al Pianeta, contribuisce a costruire un mondo migliore.
Noi supportiamo le imprese coi nostri webinar, nei percorsi di accelerazione, nella trasmissione di competenze, nel networking, nell’accesso a specialisti. Lavoriamo tutti i giorni per far sì che le nostre aziende progrediscano positivamente. Poi chiaramente ci deve essere la volontà, soprattutto della leadership: per questo reputiamo importante il commitment degli amministratori delegati.
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