
di Paolo Coletti
In Umbria si vive bene, si mangia divinamente, e si lavora… retribuiti non bene. Non per mancanza di voglia lavorativa, ma perché il sistema produttivo locale sembra aver fatto voto di modestia: piccolo è bello, dicono. Per lo scrivente, piccolo è solo fragile. In effetti, il sistema produttivo regionale è costituito in larga parte da microimprese: secondo i dati più recenti, quelle fino a 9 dipendenti rappresentano l’87,5 per cento del tessuto produttivo umbro. Se si includono anche le piccole imprese (fino a 50 dipendenti), si arriva al 97,3 per cento. In pratica, solo il 2,7 per cento delle aziende ha una dimensione tale da poter pensare seriamente a importanti investimenti strutturali.
Un sistema così frammentato ha difficoltà a competere e a innovare. E senza innovazione non c’è crescita. Senza crescita non ci sono salari competitivi. Senza salari competitivi, i giovani se ne vanno. E così via, in un elegante circolo vizioso. Tre dati aiutano a capire meglio le dinamiche economiche umbre: retribuzioni, consumi e numero di laureati assunti nelle aziende.
Nel 2024, la retribuzione media annua lorda in Umbria è stata di 28.530 euro, contro una media nazionale di 30.830 euro. Se si guarda ai contratti standard, il divario arriva al 17,4 per cento in meno. In pratica, lavorare in Umbria è un po’ come fare volontariato, ma con più scartoffie.
E i consumi? Nel 2023, la spesa pro capite delle famiglie umbre è stata di 20.245 euro, la più bassa del Centro-Nord. A Terni si scende a 18.654 euro, mentre Perugia si difende con 20.785 euro. Il resto del Centro Italia ci guarda con distaccata tenerezza: in Emilia-Romagna la media è 23.376 euro, nel Lazio 21.663, in Toscana 21.602 e nelle Marche 20.464. Da notare che l’unica regione con consumi vicini ai nostri, le Marche, è anch’essa in transizione economica come l’Umbria.
Per regione in transizione gli organismi europei definiscono un territorio con un Pil pro capite compreso tra il 75 e il 100 per cento della media dell’Unione. Gli ultimi dati (2023) dicono che il Pil umbro pro capite è pari a circa l’86 per cento della media europea. Un dato ancora più drammatico se si pensa che nel 2000 l’Umbria era al 105 per cento. Un chiaro processo di transizione negativa.
Anche i laureati hanno poche opportunità. Nel 2019 rappresentavano il 9 per cento delle assunzioni umbre, oggi siamo scesi al 7 per cento, toccando il minimo storico. Un dato che grida vendetta, soprattutto se si considera che i giovani più preparati, davanti a stipendi bassi e prospettive nebulose, fanno le valigie e non tornano nemmeno per il pranzo della domenica.
Accanto a questo quadro c’è una burocrazia che sembra progettata per scoraggiare anche i più temerari. Per sburocratizzare davvero non bastano le buone intenzioni: serve investire pesantemente nella digitalizzazione dei servizi pubblici e nello snellimento delle pratiche. Altrimenti anche aprire una gelateria diventa una “Mission Impossible”.
C’è poi il nodo amministrativo. Novantadue comuni in una regione così piccola sono davvero troppi, e ormai senza più popolazione sufficiente per farli funzionare. Una frammentazione che non aiuta, neppure i cittadini che vi risiedono. Servono razionalizzazione, fusioni e unioni dei comuni per rendere il sistema più resiliente. L’economia ha bisogno di spazio per crescere e prosperare.
La ricetta, dunque, si può sintetizzare in cinque direzioni. Serve far crescere dimensionalmente le imprese, favorendo aggregazioni, reti d’impresa e investimenti strutturali. Bisogna costruire un canale stabile tra l’Università di Perugia – soprattutto le facoltà Stem – e il tessuto produttivo locale. Occorre che la Regione e i principali comuni diventino protagonisti nell’intercettare fondi europei, investendo in task force dedicate e in professionalità qualificate. È urgente modernizzare la pubblica amministrazione attraverso digitalizzazione e semplificazione. Infine, va avviata una vera riforma amministrativa che riduca il numero dei comuni e razionalizzi la governance territoriale.
L’Umbria ha talento, bellezza e cervelli. Ma se non si cambia passo, continueremo a produrre lavoro sottopagato e imprese che vivono stentando. Servono produttività, ricerca e coraggio. E magari anche un pizzico di sano realismo, perché il primo passo per cambiare è smettere di raccontarsi che in fondo va tutto bene.
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