21 Agosto 2025
Una Brexit à la carte


Nella storia dell’integrazione europea, l’uscita del Regno Unito dall’Unione rappresenta plausibilmente la più brusca battuta d’arresto. Il 23 giugno 2016, per la prima volta nella storia, uno Stato membro sceglie volontariamente di lasciare il consesso comunitario costruito a fatica in tanti decenni. E lo fa scandendo lo slogan “Brexit means Brexit”, il principio che ha guidato le decisioni e i negoziati del governo britannico, a voler dire che il popolo aveva preso una decisione irreversibile e l’impegno era quello di traghettare il Paese fuori dall’UE senza se e senza ma, senza stratagemmi con cui rientrare dalla porta posteriore (1). Ha vinto infatti il modello della “hard Brexit”, con il Regno Unito che ha reciso i legami con le istituzioni e i trattati europei, abbandonando anche i privilegi di far parte del mercato unico. 

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Con il nuovo governo laburista di Keir Starmer, i rapporti con l’UE sono diventati più pacifici e sembra essersi verificato un importante riavvicinamento tra i due blocchi. Lo testimonia la nuova partnership strategica tra le due parti annunciata a metà maggio, con cui Regno Unito e Unione europea sono tornati a collaborare su alcuni fronti, come quello della difesa, dell’energia e della pesca. A fronte di questo importante accordo, si può ancora dire che “Brexit means Brexit”? Oppure stiamo assistendo a un ripensamento dei rapporti tra i due attori – una “softer Brexit” – in grado di riattivare delle sinergie su alcuni fronti di comune interesse?
 

Il referendum sulla Brexit: una mossa sbagliata di politica interna

Per comprendere i recenti sviluppi che sembrano aver sconfessato la linea dell’intransigenza verso Bruxelles, occorre ripensare a come è nato il referendum sulla Brexit. Tralasciando il livello dello scontro politico, le fake news circolate durante la campagna referendaria e la netta spaccatura demografica e territoriale disegnata dal voto, ciò che rimane impresso sono le motivazioni che hanno portato a sottoporre ai cittadini una decisione così rilevante per il destino e il futuro del Regno Unito. L’allora Primo Ministro conservatore David Cameron aveva proclamato il referendum per cercare di contenere l’ascesa degli elementi più estremi ed euroscettici del suo partito e sgonfiare l’opposizione sempre più ostile e crescente dello United Kingdom Independence Party (UKIP), guidato da Nigel Farage. Cameron aveva inizialmente avviato dei negoziati per ottenere nuove concessioni da parte dell’UE, soprattutto in materia di economia e migrazione, ma i limitati risultati ottenuti non avevano fatto altro che puntellare il fronte degli scettici (2). Per ricompattare il partito e la nazione attorno alla sua leadership, aveva così annunciato un referendum sulla permanenza nell’UE, considerando questa opzione meno rischiosa rispetto all’ ottenere una maggioranza parlamentare chiamando elezioni anticipate. Questo metodo di conferma della propria leadership, basato sulla strumentalizzazione di importanti e cruciali questioni di politica interna, gli era già valso dei successi in passato, quando aveva sconfitto sia i sostenitori del voto alternato nel referendum del 2011 che i sostenitori dell’indipendenza scozzese nel 2014. Purtroppo, nel caso del referendum del giugno 2016, i conti non sono tornati e David Cameron è stato costretto ad ammettere la sconfitta e a lasciare il proprio posto. L’utilizzo della democrazia diretta come strumento di regolazione di conti interna ha portato a una delle decisioni ancora oggi più controverse e dibattute nella storia del Paese.

 

L’accordo di recesso e il Trade and Cooperation Agreement (TCA)

La maggior parte dei sostenitori del Leave avevano fatto campagna sotto lo slogan “Take back control”, ma nessuno di loro aveva indicato in modo chiaro una strada da percorrere una volta lasciato l’edificio europeo. Per queste ragioni, l’esito referendario, che ha visto il fronte della defezione conquistare il 52% delle preferenze, ha aperto le porte a un complesso periodo di incertezza e complessità. Neppure l’articolo 50 del Trattato sull’Unione europea (TUE), invocato come base giuridica per consentire il ritiro dall’UE, aveva aiutato molto in tal senso, poiché scandiva di fatto solo le tempistiche e gli attori coinvolti nel processo ma non le modalità e i contenuti. I negoziati sono stati dunque molto lunghi e complessi e il Regno Unito usciva ufficialmente dall’UE solo quattro anni dopo: il 31 gennaio 2020. 

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L’accordo di recesso consentiva a Regno Unito e Unione europea di divorziare in maniera graduale e ordinata e ha portato all’istituzione di un periodo di transizione, fino al 31 dicembre 2020, per facilitare la fase di adattamento e svincolamento dalle norme europee. Nel corso del periodo di transizione, il Regno Unito continuava a essere considerato alla stregua di uno Stato membro e a seguire la gran parte dell’acquis communautaire. Come esempi generali, l’accordo prevedeva che i cittadini britannici residenti in UE prima del termine del periodo di transizione e viceversa continuassero a godere del diritto di soggiorno. Lo stesso tipo di approccio era stato esteso anche alla libera circolazione delle merci, sempre fino alla fatidica deadline del 31 dicembre 2020. Inoltre, UK e UE erano obbligate a continuare ad onorare i loro reciproci impegni finanziari, secondo il principio che “nessuno Stato membro dovrebbe pagare di più o ricevere di meno a causa del ritiro del Regno Unito” (3). Specularmente, il Regno Unito avrebbe potuto continuare a godere dei finanziamenti UE per programmi e progetti del Quadro Finanziario Pluriennale 2014-2020 fino a chiusura degli stessi, per rassicurare tutti i beneficiari circa il completamento delle attività (4). Accanto a queste disposizioni, i negoziati tra le parti avevano portato alla sottoscrizione anche di un protocollo su Irlanda e Irlanda del Nord per evitare il tanto temuto ritorno del confine fisico tra le due Irlande, salvaguardando pertanto gli Accordi del Venerdì Santo (5).

Uno degli elementi certamente più interessanti dell’accordo era che poneva le premesse per una futura collaborazione tra le due parti in diverse materie di interesse, con particolare riferimento a un partenariato economico; è quanto era stato stabilito all’interno della cosiddetta Dichiarazione politica che definisce il quadro delle future relazioni tra l’Unione europea e il Regno Unito, allegata all’accordo di recesso. Riconoscendo gli importanti legami politici e commerciali che UE e UK hanno condiviso per moltissimi anni, “le parti convengono di sviluppare un partenariato economico ambizioso, di ampia portata ed equilibrato. […]. Il partenariato economico dovrebbe facilitare nella misura del possibile il commercio e gli investimenti tra le parti, rispettando l’integrità del mercato unico dell’Unione e dell’unione doganale nonché del mercato interno del Regno Unito, tenendo conto dell’elaborazione, da parte del Regno Unito, di una politica commerciale indipendente” (6).

Questa dichiarazione ha rappresentato il punto di partenza per la sottoscrizione, poco tempo dopo, del Trade and Cooperation Agreement (TCA), un accordo di libero scambio tra il Regno Unito e l’Unione europea, negoziato dall’allora premier Boris Johnson, con cui si azzeravano le barriere commerciali. Tuttavia, l’uscita del Regno Unito siglava definitivamente la fine del libero scambio delle merci e delle persone, oltre che il divorzio del Regno Unito dalle istituzioni e dal tessuto normativo europeo.
 

I danni della Brexit

Partendo da queste premesse, la nuova partnership strategica annunciata dal nuovo premier laburista Keir Starmer assieme a Ursula Von Der Leyen rappresenta una sorta di ritorno al passato, un riavvolgimento del nastro nei rapporti tra i due blocchi, che secondo molti inaugura una nuova alba nelle relazioni tra UK e UE e sconfessa la narrazione della “hard Brexit”. Ma quali sono le motivazioni che hanno spinto la nuova maggioranza a compiere questo passo importante?

Innanzitutto occorre sottolineare il nuovo corso laburista nel Regno Unito dopo 14 anni di governo Tories. Keir Starmer si è sempre dichiarato un fiero sostenitore del “Remain” fin dai tempi della campagna referendaria ed è logico aspettarsi che voglia imprimere un cambio di corso a scelte delle amministrazioni precedenti da lui considerate scellerate. In secondo luogo, c’è la consapevolezza, sempre più diffusa nella popolazione e nella politica britannica, delle conseguenze nefaste sull’economia che la Brexit ha avuto. A cinque anni dal fatidico evento, i dati e le analisi lasciano poco spazio ad interpretazioni.

Il primo dato che colpisce è quello relativo al commercio. L’uscita dal mercato unico ha coinciso con una drastica riduzione delle esportazioni verso i Paesi UE, che costituivano il mercato principale per il Regno Unito. Ciò si è dimostrato vero soprattutto per i beni. Nonostante l’accordo siglato da Boris Johnson abbia azzerato le tariffe doganali, il vero problema è rappresentato dalle barriere non tariffarie, ovvero da tutti i controlli doganali e le pratiche burocratiche. Le merci vanno esaminate alla frontiera per verificare che corrispondano agli standard europei e britannici e questo genera costi aggiuntivi che sono per la maggior parte a carico delle imprese. Le stime sulla contrazione del commercio di beni variano a seconda dei metodi di calcolo utilizzati, ma in generale l’Office for Budget Responsibility (OBR), l’organo indipendente che realizza stime e analisi sull’impatto macroeconomico, parla di una riduzione di circa il 15% nell’import ed export di beni e servizi nel lungo periodo rispetto a uno scenario di permanenza nell’UE (7). Il Regno Unito ha provato in questi anni a stringere nuovi accordi commerciali con altri Paesi, soprattutto dell’area Commonwealth, ma difficilmente saranno in grado di compensare completamente l’interscambio con i Paesi europei (8).

Il secondo dato di rilievo riguarda l’immigrazione, che fu il vero tema al centro del dibattito sulla Brexit. Lo slogan Take back control faceva soprattutto riferimento a un controllo dei confini per arginare gli arrivi di immigrati nel Regno Unito. Con l’uscita dall’UE il numero di immigrati europei è certamente diminuito, ma al contempo il Paese ha visto un vertiginoso aumento degli arrivi di third-country nationals (migranti provenienti da Paesi terzi), tanto da toccare il record di quasi un milione nel 2023 (9). Ciò è dovuto anche al fatto che le rette universitarie di europei e non europei si sono livellate dopo la Brexit, sfavorendo di fatto la concorrenza europea che prima godeva di prezzi agevolati. Gli studenti internazionali, inoltre, hanno spesso famiglie numerose e la legge consentiva di portare con sé i dependants, ossia i familiari al seguito, tanto che il visto di studio era diventato per molti “un escamotage per trasferirsi in Gran Bretagna con la famiglia” (10). Circa il 90% degli arrivi totali sono dunque da stati extra-europei, con conseguente difficoltà da parte di molti imprenditori a trovare lavoratori, prima facilmente reperibili dal mercato europeo.

Anche gli investimenti da parte delle imprese hanno conosciuto una brusca battuta d’arresto. L’incertezza circa il futuro del Regno Unito e i suoi legami con l’Unione europea ha creato un ambiente poco favorevole agli investimenti privati, che infatti sono rimasti stagnanti. Sebbene sia normale aspettarsi una ripresa dopo il periodo di adattamento, il National Institute of Economic and Social Research (Niesr) ha calcolato che gli investimenti delle imprese erano inferiori del 13% rispetto allo scenario no-Brexit (11).

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Marco Varvello, storico corrispondente Rai a Londra, ha avuto buon gioco dunque ad affermare nel suo ultimo libro che “tutti, britannici ed europei, siamo ora alle prese con le conseguenze e i danni causati dalla Brexit. Nessuno li nega più, al massimo si litiga sulle cause di tale fallimento” (12). Questo fenomeno è evidenziato anche da un recente sondaggio di YouGov che ha voluto fotografare il sentiment della popolazione britannica rispetto alla Brexit a cinque anni dal recesso ufficiale. Solo il 30% dei rispondenti supporta ancora il voto del giugno 2016, mentre il 55% ritiene sia stato un errore. Più di 6 cittadini su 10, compresi molti sostenitori del Leave, ritengono oggi che la Brexit sia stata negativa per il loro Paese e per la sua economia (figura 1) (13).

Figura 1: sondaggio sulla decisione del Regno Unito di abbandonare l’Unione europea, fonte YouGov

Una nuova partnership per un nuovo inizio

Le ripercussioni negative della Brexit e le grandi sfide globali che sono emerse negli ultimi anni hanno obbligato il nuovo governo Labour a un deciso cambio di rotta. I problemi interni, soprattutto di natura economica e fiscale, rimangono e il governo Starmer pare essere partito in salita, almeno in quanto a reputazione e popolarità. Tuttavia, l’impronta in politica estera è risultata subito molto chiara: riavvicinare il Regno Unito all’Unione europea per cooperare almeno sulle sfide più pressanti del momento. Questo atteggiamento è risultato chiaro fin da subito nel sostegno all’Ucraina, al cui riguardo Starmer ha da subito svolto un ruolo da protagonista riunendo a marzo i leader europei a Londra per riaffermare il supporto alla causa ucraina e per rendersi disponibile a far parte di una coalizione di “volenterosi” disposti a inviare un contingente militare in Ucraina dopo un eventuale cessate il fuoco per dare garanzie al paese invaso, come elemento difensivo e di dissuasione (14).

Ma il segnale più forte è arrivato dalla nuova partnership strategica siglata dopo mesi di negoziati. Sebbene estremamente limitata nelle materie trattate, si tratta di un primo passo fondamentale nel nuovo capitolo aperto dal premier Starmer. La nuova intesa segna “il superamento della dimensione strettamente bilaterale tra Stati membri e aprendo la strada a una prima forma di cooperazione strutturata tra UE e Regno Unito” (15), prevedendo la partecipazione reciproca ai vertici di alto livello, compresi i Consigli europei. Sul fronte dei contenuti, l’accordo avvicina il Regno Unito all’Unione europea nella collaborazione sulla difesa e il riarmo. Bruxelles avrà la possibilità di cooperare con la maggiore potenza nel settore in Europa, mentre per il Regno Unito ci sarà il vantaggio di usufruire del fondo UE da 150 miliardi del Rearm Europe. Ritorna un’intesa comune sulla pesca, materia molto controversa all’epoca della Brexit. Starmer e Von Der Leyen si sono accordati per estendere fino al 2038 l’accesso dei pescherecci europei alle acque britanniche. Intesa anche sul fronte dell’energia, con il ritorno della Gran Bretagna nel mercato europeo dell’energia e sull’acciaio.

Su altri argomenti invece i due attori hanno deciso di continuare i negoziati. Ci sono infatti alcune questioni spinose che Starmer dovrà trattare coi guanti se non vuole vedere crescere l’opposizione del Reform UK di Farage, che ha già mostrato ostilità nei confronti dell’accordo. Un tema è sicuramente quello della mobilità dei giovani. Il premier inglese ha escluso un ritorno al passato, con le agevolazioni sia di studio che di lavoro garantite ai ragazzi europei. Se ci sarà un accordo su questo sarà comunque nel numero di visti e nel tempo. La nuova partnership esplicita l’importanza per i due attori di dar vita ad un’area sanitaria e fitosanitaria che consenta lo scambio di prodotti limitando i certificati e i controlli che hanno rappresentato un costo significativo soprattutto per le aziende britanniche. Quanto profondo sarà l’impegno in questa direzione è però ancora da capire in quanto significherebbe riallineare il Regno Unito agli standard europei e alla giurisdizione della Corte europea di giustizia, tema che era stato nel mirino dei Brexiteers e che personaggi come Farage potrebbero di nuovo cavalcare per guadagnare consensi (16).

Il tempo ci dirà se ci sarà un’ulteriore intensificazione dei rapporti tra UK e UE. Al momento, l’intesa sancisce il ritorno delle due potenze alla cooperazione in alcuni ambiti strategici e mette definitivamente la parola fine tanto all’approccio “hard Brexit” quanto a quello del “no cherry picking”, ossia l’idea che la Brexit avrebbe dovuto tagliare definitivamente tutti i preesistenti rapporti senza la possibilità di selezionare gli ambiti in cui mantenere accordi preferenziali o regole condivise. O si è dentro al mercato unico o si è fuori. La nuova partnership ha dimostrato che quando c’è mutuo interesse su alcune tematiche, la Commissione europea è pronta a chiudere un occhio (17).

Ad ogni modo un ritorno del Regno Unito a pieno titolo tra i membri dell’UE è al momento da escludere categoricamente. Keir Starmer ha infatti segnalato che vuole rispettare la volontà popolare uscita dal referendum del 2016 ed evitare di riaprire le ferite e le tensioni sociali con una seconda votazione. Rimane per il momento una “Brexit à la carte” in cui Regno Unito e istituzioni europee si accorderanno di volta in volta sulle tematiche di mutuo interesse, ricercando compromessi e cercando ciascuno di trarne profitto, ma continuando a essere separati in casa.



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