
di Giuseppe Gagliano –
Il governo cinese ha minacciato un taglio alle forniture di terre rare alle aziende occidentali. Si tratta di un segnale strategico che va letto in più dimensioni. Le terre rare non sono un mercato qualunque: sono la linfa vitale di settori che spaziano dall’industria automobilistica alla difesa, fino all’elettronica di consumo. Chi controlla queste catene di approvvigionamento controlla, in buona parte, la capacità industriale e tecnologica del mondo sviluppato.
La Cina, che già da anni domina la produzione e la raffinazione di questi metalli, ha iniziato nel 2025 a restringere l’export delle cosiddette terre rare “pesanti” e dei loro derivati, come gli indispensabili magneti ad alte prestazioni. Una scelta che ha messo in difficoltà catene industriali globali già fragili, costringendo aziende europee e americane a rallentare produzioni e a rivedere piani di investimento. Pechino giustifica queste misure con argomenti di sicurezza nazionale e di prevenzione della proliferazione tecnologica, ma la coincidenza con le sanzioni americane nel settore dei semiconduttori mostra la natura ritorsiva e geoeconomica di questa decisione.
Il valore delle terre rare non si esaurisce nella manifattura civile. Questi materiali sono fondamentali per la costruzione di radar, missili, sistemi di guida e piattaforme di comunicazione militari. Limitare l’accesso dell’Occidente a tali risorse significa incidere direttamente sulla capacità di mantenere un vantaggio tecnologico nei conflitti moderni. È la trasposizione, nel dominio industriale, di un equilibrio di deterrenza: così come le armi nucleari creano dipendenza e cautela, anche la dipendenza dalle forniture cinesi genera vulnerabilità strategiche.
L’Occidente si trova ora di fronte a un dilemma. Da un lato, accelerare la diversificazione delle fonti: Australia, Stati Uniti e alcuni Paesi africani stanno tentando di aumentare produzione ed esportazioni. Dall’altro, affrontare la realtà che il processo di raffinazione e trasformazione, anch’esso dominato dalla Cina, non può essere sostituito dall’oggi al domani. La corsa all’autonomia strategica rischia di richiedere anni, con investimenti miliardari e inevitabili ritardi per industrie ad alta tecnologia. Nel frattempo, le imprese occidentali devono bilanciare la tentazione di accumulare scorte con la minaccia di nuove ritorsioni da parte di Pechino.
Il messaggio cinese è chiaro: in un mondo segnato da guerre tecnologiche e da sanzioni incrociate, la globalizzazione non è più sinonimo di interdipendenza simmetrica, ma di vulnerabilità asimmetrica. Washington usa i semiconduttori per contenere la Cina, Pechino risponde con le terre rare. L’Europa, spesso stretta fra le due potenze, rischia di pagare il prezzo più alto, incapace di garantire autonomia su risorse critiche e costretta a inseguire strategie di diversificazione che richiedono tempo e coordinamento politico.
In questo quadro l’avvertimento di Pechino suona come un monito: chi vorrà sfidare la Cina dovrà prima fare i conti con la propria dipendenza dalle sue risorse. Una dipendenza che non riguarda solo l’economia, ma la capacità stessa di proiettare potere, innovazione e sicurezza.
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