
Il bicchiere è mezzo pieno, forse. Perché l’Italia, nella battaglia sui dazi innescata da Donald Trump, rinvia la partita decisiva ai tempi supplementari. Tre/sei mesi, stando alle stime che circolano. Ovvero quando si concluderà il secondo round delle trattative sui prodotti da “graziare”, vale a dire quelli da includere nella lista degli esentati dalla mannaia del 15% abbattutasi sull’Europa.
Per ora l’elenco stilato da Usa e Ue è assai ristretto, a dispetto di quanto speravano le cancellerie europee, Italia in primis. Con Roma che – complice il rapporto privilegiato con Trump e con il segretario al Commercio Koward Lutnick, gran visir della trattativa sui dazi – confidava di portare subito a casa il risultato. Quale? Salvare dai rincari alle dogane Usa i prodotti che costellano il pantheon del made in Italy del mondo.
Salvare il vino e il food. Vale a dire vino, formaggi, pasta, olio, salumi: leccornie che sugli scaffali a stelle e strisce vanno a ruba. Per ora, però, nell’agognato elenco dazi zero ci sono solo le risorse naturali non disponibili (incluso il sughero), tutti gli aeromobili e le loro parti, i farmaci generici e i loro ingredienti e precursori chimici. Ciò non toglie che la dichiarazione congiunta siglata ieri da Usa e Ue «fornisce finalmente al mondo imprenditoriale un quadro chiaro del nuovo contesto delle relazioni commerciali transatlantiche», si legge nella nota diffusa da Palazzo Chigi. Perché ciò che più temevano Meloni e i suoi era quell’incertezza piombata sui mercati come un avvoltoio all’indomani del “Liberation day” proclamato in pompa magna dal tycoon. E la dichiarazione a cui si è giunti ieri, frutto dell’accordo politico tra Trump e von der Leyen nel lussuoso golf club di Turnberry, non è ancora «un punto di arrivo ideale o finale» ma assicura, secondo Palazzo Chigi, «alcuni punti fermi importanti», in primis «aver evitato una guerra commerciale» e «aver posto le basi per relazioni commerciali mutualmente vantaggiose».
L’accordo Usa-Ue. Con quel 15% «onnicomprensivo», vale a dire che non va aggiunto ai balzelli già esistenti – e lì sì che sarebbe stata una caporetto, mentre così dall’esecutivo spergiurano che la faccenda sia «assolutamente sostenibile» – «e che include il settore dell’auto e i settori strategici (farmaceutici, semiconduttori, legname)», rimarca il governo italiano. Con la testa già alla prossima sfida, «per incrementare ulteriormente nei prossimi mesi, come previsto dalla dichiarazione congiunta» Usa-Ue, «i settori merceologici esenti, a partire dal settore agroalimentare». Eppure appena un mese fa Roma era convinta di avere avuto la meglio per i formaggi a pasta dura – “sua maestà” Parmigiano reggiano in buona compagnia del Grana Padano, del pecorino sardo e romano, del Montasio e del Nostrano Valtrompia – e di essere a un passo dal trattamento di favore anche per pasta e olio d’oliva. Più complessa, riavvolgendo indietro il nastro, la partita del vino, che appariva in salita. Ma poi qualcosa è cambiato, forse complice – il ragionamento che circola in ambienti di governo – il momento internazionale delicato, con Trump che, con ogni probabilità, ha preferito non forzare la mano, con distinguo tra figli e figliastri che avrebbero alimentato divisioni e malumori. Da qui la decisione di concedere altro tempo alla lista dei miracolati. Per quanto pasta e formaggi “duri” ne escano comunque rafforzati: per loro i balzelli passano infatti dal 25 al 15%.
La task force. Intanto ieri la Task force dazi della Farnesina ha aggiornato le imprese sulle novità. L’ambasciatore Vincenzo Celeste, rappresentante permanente dell’Italia in Ue, ha difeso l’intesa siglata bollandola come «il miglior accordo possibile», e ha rassicurato gli imprenditori: ora la partita per arrivare «a nuove esenzioni entro fine anno è in cima alle nostre priorità». Stefano Bottega, presidente del gruppo vinicolo di Confindustria Veneto Est, dice al Messaggero che l’accordo ha evitato «una guerra commerciale, ma il 15% resta una pessima notizia per il nostro settore, che negli ultimi 6 mesi ha subito un’importante battuta d’arresto. Nei prossimi 12 mesi prevediamo un calo delle vendite del 5% negli Usa, con un danno che va dai 300 ai 400 milioni di euro. Ma siamo fiduciosi – confida – che entro l’anno arrivi una buona notizia. Intanto, però, passiamo dalla lamentela all’azione: l’Italia può farcela se reagisce compatta, con uno scudo di protezione che coinvolga aziende e istituzioni».
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