24 Agosto 2025
Dibattito sui dazi. Non è Trump a frenare le imprese


L’entrata in vigore dei nuovi dazi statunitensi al 15% sulle importazioni europee, inclusi i beni italiani, produrrà un impatto stimato sull’export tricolore compreso tra i 7 e gli 8 miliardi di euro. È quanto emerge da un’analisi aggiornata del Centro studi di Unimpresa, che ha modellato tre scenari di riferimento: uno basso da 7 miliardi, uno intermedio da 7,5 miliardi e uno alto da 8 miliardi, sulla base di un’esportazione complessiva verso gli Stati Uniti stimata tra 66 e 70 miliardi di euro annui.

I comparti

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I comparti più esposti in termini assoluti restano la meccanica strumentale e i macchinari industriali (fino a 2 miliardi di dazi potenziali), seguiti da chimica e farmaceutica (1,7 miliardi), moda e pelletteria(1,1 miliardi), agroalimentare (0,9 miliardi), mezzi di trasporto (0,8 miliardi) e beni di consumo ad alto valore come occhialeria, arredo e gioielleria (0,6 miliardi).

La conferma delle misure protezionistiche imposte dagli Stati Uniti ha riacceso il dibattito sul futuro delle esportazioni europee e italiane. Ma se da Bruxelles arrivano reazioni timide, nel cuore produttivo della Lombardia il pensiero è tutt’altro che uniforme. Due letture diverse ma complementari quelle offerte da Mario Gualco (Officina Meccanica Gualco) e Alberto Croci (Téchne), entrambi imprenditori nel settore meccanico che puntano il dito non tanto contro Trump, ma contro l’inerzia europea e la burocrazia italiana.

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«Il problema non sono i dazi, ma l’Europa che non reagisce» dice Mario Gualco per il quale il vero nodo non è tanto la politica commerciale americana, quanto la mancanza di una risposta efficace da parte dell’Unione Europea. «Io sono una voce fuori dal coro – afferma l’imprenditore che in ambito associativo ricopre la carica di presidente dell’Area Produzione di Cna Lombardia – i dazi ci sono e ci saranno, con o senza Trump. Il problema siamo noi, che non abbiamo forza, né credibilità per rispondere».

La sua analisi si spinge oltre la semplice economia e tocca i limiti sistemici dell’Ue: «Da anni sono scettico quando si parla di unità europea – continua l’imprenditore – basta vedere cosa succede quando una banca italiana vuole investire in Germania e viceversa. Ci sono due pesi e due misure».

Dal punto di vista delle imprese, soprattutto le piccole, Gualco è chiaro: «Le multinazionali riescono a schivare i dazi delocalizzando la produzione. Quelle piccole no. Eppure continuiamo a firmare accordi che favoriscono solo gli Stati Uniti. L’intesa con la Commissione europea ci obbliga ad acquistare gas e investire negli Stati Uniti, senza poter regolare, a nostra volta, le big tech americane».

La risposta

L’alternativa? Gualco propone una misura drastica: «Perché non tassare i guadagni degli investitori europei in società americane? Sarebbe un modo per rispondere senza toccare l’economia reale».

La sua ricetta per aiutare le Pmi è radicale ma non assistenzialista: «Non servono soldi pubblici, serve semplificazione. Togliamo burocrazia, e le aziende potranno competere».

E conclude con una riflessione sul modello di consumo: «Comprare low cost vuol dire consumare più energia e generare più rifiuti. Se compri una caldaia italiana di buona qualità, costa di più, ma dura vent’anni e puoi ripararla. Quella cinese costa meno, ma tra tre anni la butti. E continuiamo a finanziare l’economia degli altri, invece della nostra».

Più fiducioso nei fondamentali del made in Italy è Alberto Croci. «Sì, i dazi danno fastidio, ma finché l’Europa sta a guardare e non decide, li subiremo. Trump a casa sua può fare quello che vuole. Ma non possiamo piangere ogni volta e chiedere sussidi». Croci è convinto che la qualità del prodotto italiano farà comunque la differenza, ma anche per lui, il nodo è la burocrazia: «Se vogliamo competere con Paesi come India o Pakistan, invece di accettare il dumping, dobbiamo liberarci di vincoli inutili. Togliamo le gabelle, semplifichiamo. Negli Stati Uniti ogni nuova norma ne cancellava due vecchie; facciamolo anche noi».

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Croci respinge la logica del protezionismo come unica soluzione: «Il protezionismo può funzionare per un po’, ma non è una strategia di lungo periodo. Il vero cambiamento è puntare sulla qualità, sulla riparabilità, sulla sostenibilità dei nostri prodotti. Se produci qualcosa di eccellente, anche a un prezzo più alto, la gente continuerà a comprarlo».

Se Gualco è severo verso l’Ue e Croci si mostra più fiducioso sulla forza del made in Italy, entrambi concordano su un punto centrale: le imprese italiane non chiedono aiuti a pioggia, ma un contesto normativo più semplice e coerente, che permetta loro di dedicarsi a ciò che sanno fare meglio: produrre.



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