25 Agosto 2025
sui licenziamenti dipendenti e titolari sono nelle mani dei giudici – infosannio


(di Claudio Tucci e Marco Marazza – il Sole 24 Ore) – Se il governo Meloni, in autunno, deciderà di accendere un faro sulla normativa del lavoro, dovrà certamente farlo anche sul tema, delicato e storicamente divisivo, dei licenziamenti.

Questo perché l’attuale disciplina, per come è stata riscritta dalle sentenze della Corte costituzionale nel periodo 2018-2025, e per come è stata interpretata dalle pronunce della Corte di Cassazione, ha raggiunto un eccessivo livello di imprevedibilità delle regole applicabili al caso concreto, con una ri-espansione della discrezionalità dei giudici e degli ambiti di applicazione della tutela reintegratoria.

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Una direzione esattamente opposta a quella intrapresa dal Legislatore del 2015 che, con il cosiddetto Jobs Act, aveva provato a intensificare l’utilizzo della sanzione indennitaria e a dare maggiori certezze sui “costi di separazione”.

Il risultato, in estrema sintesi, è che oggi il regime delle sanzioni applicabili al licenziamento illegittimo ha contenuti davvero molto simili a quello introdotto negli anni Settanta dallo Statuto dei lavoratori che, ormai da quasi quindici anni, il legislatore, e i governi di un po’ tutti i colori politici, hanno dimostrato di ritenere inadeguato per l’attuale contesto socioeconomico.

Un sistema, in sostanza, troppo complicato anche per i tecnici della materia (giudici compresi) e, di conseguenza, incapace di assecondare l’aspettativa di lavoratori e imprese di disporre di riferimenti legislativi chiari. Il tutto, e lo vogliamo dire con estrema chiarezza, con buona pace di quella sensazione di incertezza giuridica (e sanzionatoria) che negli anni ha sempre frenato gli investimenti e l’arrivo di imprese dall’estero.

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Torna la discrezionalità dei giudici su indennizzi L’ultima “picconata”, in ordine di tempo, è stata data lo scorso luglio, quando la Consulta con la sentenza n. 118 ha dichiarato incostituzionale, per i licenziamenti di lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 intimati in unità produttive con meno di 15 dipendenti (da datori di lavoro che complessivamente occupano meno di 60 dipendenti), il tetto di sei mensilità dell’ultima retribuzione.

Secondo i giudici l’imposizione di «un simile limite massimo, fisso e insuperabile, a prescindere dalla gravità del vizio del licenziamento… fa sì che l’ammontare dell’indennità sia circoscritto entro una forbice così esigua da non consentire al giudice di rispettare i criteri di personalizzazione, adeguatezza e congruità del risarcimento del danno sofferto dal lavoratore illegittimamente licenziato, né da assicurare la funzione deterrente della stessa indennità nei confronti del datore di lavoro».

Per effetto di questa sentenza, dunque, per i tanti che ormai ricadono nel campo di applicazione del Jobs act, in caso di licenziamento illegittimo intimato da una piccola impresa la sanzione economica è quantificata dal giudice tra un minimo di 3 ed un massimo di 18 mensilità. Se, però, il lavoratore è assunto prima del 7 marzo 2015, e quindi trova applicazione la previgente normativa che il Jobs act voleva rendere meno onerosa e meno esposta al rischio di un eccessivo soggettivismo giudiziale, la legge n. 604 del 1966 fissa l’indennizzo massimo in 6 mensilità.

Con la possibilità, quando il licenziamento è intimato da piccole imprese con maggiore consistenza occupazionale, di arrivare fino a 10 mensilità (solo in caso di lavoratore con anzianità maggiore di 10 anni) o fino a 14 mensilità (solo in caso di lavoratore con anzianità superiore a 20 anni).

In sostanza, la normativa applicabile a partire dal 2015, che nelle piccole imprese per i nuovi assunti voleva ridurre l’indennizzo previsto dal legislatore negli anni sessanta, oggi sanziona il licenziamento illegittimo con un risarcimento che, per un verso, è più consistente (18 vs 6 mensilità, maggiorabili a 14 solo per i lavoratori con venti anni di servizio) e, per l’altro, anche maggiormente rimesso alla discrezionalità giudiziale (giacché la quantificazione di 18 mensilità potrebbe essere disposta dal giudice anche per un neo assunto, prescindendo dall’esistenza di un parametro vincolante dettato dalla anzianità di servizio del lavoratore).

2 I CRITERI PER L’INDENNIZZO

Ora non conta più solo l’anzianità di servizio Tornando indietro con le lancette, la prima spallata al Jobs Act è datata novembre 2018 quando con la sentenza n. 194 i giudici hanno dichiarato incostituzionale il criterio di determinazione dell’indennità spettante al lavoratore ingiustamente licenziato, rigidamente ancorato dal legislatore del 2015 solo all’anzianità di servizio con lo specifico obiettivo di limitare i rischi di una eccessiva discrezionalità del giudice.

Secondo la Consulta il meccanismo di quantificazione – un importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione per ogni anno di servizio – «renderebbe l’indennità “rigida” e “uniforme” per tutti i lavoratori con la stessa anzianità, così da farle assumere i connotati di una liquidazione “forfetizzata e standardizzata” del danno derivante al lavoratore dall’ingiustificata estromissione dal posto di lavoro a tempo indeterminato».

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Per la Corte, in sostanza, la norma, per come congegnata, precludeva la possibilità di modulare la sanzione in base alla specificità del vizio che affliggeva il licenziamento. Ond’è che, rimosso questo rigido criterio di quantificazione, il giudice, nell’esercitare la propria discrezionalità nel quantificare la sanzione tra un minimo (4, ora 6 mensilità) e un massimo (24, ora 36 mensilità) fissati dalla legge, non deve più tener conto solo dell’anzianità di servizio – criterio che ispira il disegno riformatore del 2015 – ma, pur in assenza di esplicite previsioni della legge del 2015, deve fare riferimento agli altri criteri «desumibili in chiave sistematica dall’evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti)».

Sostanzialmente per gli stessi motivi, con sentenza n. 150 del 2020, la Corte costituzionale ha dichiarato nuovamente incostituzionale il Jobs Act nella parte in cui, per la determinazione dell’indennità minima dovuta al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo per vizi formali o procedurali, faceva esclusivo riferimento all’anzianità di servizio. La ratio di queste pronunce è chiara e non può negarsi che ogni caso concreto presenta specificità che meritano di essere considerate ai fini della modulazione del regime sanzionatorio.

Non è passato inosservato, però, il fatto che nell’affermare questo principio la Corte, a fronte della chiara intenzione del legislatore di vincolare la quantificazione del danno a parametri quanto più possibile certi, poco ha fatto per limitare la discrezionalità dei giudici o, quanto meno, anche solo per rimarcare l’importanza di un’adeguata motivazione (a dire il vero, spesso assente) dei criteri seguiti per la quantificazione in concreto della indennità.

Ma ancora più rilevante è segnalare che se in queste pronunce la Corte ha senza difficoltà ricavato nel sistema le regole sostitutive del criterio della anzianità individuato in via esclusiva dalla legge, non sembra aver seguito lo stesso approccio allorquando, senza alcuno sforzo di ricercare sempre nel sistema dei criteri in grado di guidare l’operato dei giudici, è stato dichiarato incostituzionale l’art. 18 a causa della sua eccessiva indeterminatezza nella misura in cui disponeva che il giudice può, e non deve, disporre la reintegrazione in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo viziato.

3 LICENZIAMENTI NULLI

Riconosciuta la tutela reale in tante altre ipotesi Si arriva al 2024 e la Corte costituzionale smonta la parte più significativa della normativa sui licenziamenti introdotta nel 2015. Con una prima pronuncia (sentenza 22 del 2024) afferma l’illegittimità costituzionale del Jobs Act nella parte in cui prevedeva l’applicabilità della sanzione più forte, la reintegrazione piena perché assistita da un risarcimento economico parametrato a tutte le mensilità di retribuzione perse dal lavoratore a prescindere dalla lunghezza del processo, solo nei casi in cui la legge sanzionava “espressamente”, e cioè in modo esplicito, il licenziamento con la nullità. E non anche in quelle altre numerose casistiche nelle quali il licenziamento poteva essere dichiarato nullo anche in assenza di una specifica regolamentazione ad esso riferita (ad esempio, perché contrario a norme imperative di legge).

Per la Consulta il testuale riferimento ai “licenziamenti nulli” contenuto nella legge delega non consentiva al legislatore delegato di distinguere tra nullità espresse e nullità non espresse. Inoltre, «prevedendo la tutela reintegratoria solo nei casi di nullità espressa, ha lasciato prive di specifica disciplina le fattispecie “escluse”, ossia quelle di licenziamenti nulli sì, per violazione di norme imperative, ma privi della espressa sanzione della nullità, così dettando una disciplina incompleta e incoerente rispetto al disegno del legislatore delegante».

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La sentenza coglie un vizio che attiene al raccordo tra il contenuto della legge delega e quello dei decreti legislativi attuativi, ma per intenderne appieno la portata pratica occorre considerare che i casi di nullità del licenziamento non espressamente previsti dalla legge sono tutt’altro che predeterminabili e, più grave, restano costantemente esposti all’evoluzione dell’interpretazione.

Ma anche, sotto altro profilo, che l’ambito di applicazione della sanzione della reintegrazione piena è oggetto di un processo di consistente ampliamento anche in ipotesi espressamente disciplinate dalla legge in conseguenza della emersione, in ambito antidiscriminatorio, ma non solo, di tipologie di vizi che possono rendere nullo il licenziamento all’esito di valutazioni esposte a un livello di soggettivismo giudiziale difficilmente accettabile.

Solo per fare un esempio, basti pensare alla valutazione, oggi rimessa al giudice in assenza di adeguati parametri in grado di sostenere la prevedibilità della decisione, in merito alla congruità dell’accomodamento ragionevole che in presenza di condizioni ascrivibili alla sempre più ampia nozione di disabilità il datore di lavoro deve adottare quale condizione di legittimità del licenziamento.

4 TUTELA REALE ATTENUATA

Dopo la Consulta cresce l’incertezza del giudizio Ancor più incisiva è stata la sentenza 128 del 2024 con la quale la Consulta, nei fatti sovvertendo la riforma del 2015, ha dichiarato incostituzionale il Jobs Act nella parte in cui, a differenza di quanto previsto per i licenziamenti disciplinari, non prevede la tutela reintegratoria attenuata (quella che oltre a ripristinare il rapporto di lavoro riconosce il risarcimento del danno solo fino a un certo numero di mensilità per sterilizzare gli effetti economici dei tempi – talvolta eccessivamente dilatati – della giustizia) nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia dimostrata l’insussistenza della esigenza organizzativa posta alla base del licenziamento.

In pratica, se un datore di lavoro licenzia un dipendente per motivi economici o organizzativi (giustificato motivo oggettivo), ma nel giudizio non riesce a dimostrare l’effettiva esistenza di quei motivi, non potrà più essere applicata la tutela indennitaria, come originariamente previsto dalla riforma del 2015, in quanto il lavoratore ha diritto alla reintegra nel posto di lavoro, anche se attenuata.

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Ma se per gli assunti dopo il 7 marzo 2015 quanto meno la violazione dell’obbligo di repechage, pur invalidando il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, è sanzionata solo con l’indennizzo, affatto scontato è se lo stesso accada per chi rientra nel campo di applicazione dell’art. 18 dove la questione della sanzione applicabile a fronte di questo tipo di vizio, per segnalare un ennesimo profilo di incertezza, può ancora essere variabile di caso in caso a seconda di chi decide.

5 RECESSO DISCIPLINARE

Tornano le tutele decise caso per caso Infine, con la sentenza 129 del 2024 la Consulta ha affrontato la questione della reintegra nel posto di lavoro in caso di licenziamento disciplinare, specificando che la tutela reintegratoria attenuata si applica anche quando il fatto contestato è espressamente punito dalla contrattazione collettiva con una sanzione conservativa. In questa ipotesi la legge, con l’obiettivo di superare il modello sanzionatorio contenuto nell’art. 18 dopo la riforma del 2012 e le innumerevoli questioni interpretative che ne erano derivate, prevedeva esclusivamente la tutela indennitaria.

Ma per la Corte, non da ultimo in considerazione del rilievo che la Costituzione attribuisce ai sindacati e alla contrattazione collettiva, l’insussistenza del fatto materiale disciplinarmente contestato al lavoratore deve essere equiparata, ai fini della individuazione della sanzione applicabile, al caso in cui il fatto contestato esiste ma risulta espressamente punito dalla contrattazione collettiva con una sanzione conservativa.

Estendendo così ancor di più l’ambito della tutela reintegratoria e lo spazio della discrezionalità del giudice cui, in fin dei conti, resta il compito di accertare se un determinato codice disciplinare ha o meno tipizzato un certo tipo di infrazione in modo idoneo a consentire l’applicazione della sanzione reintegratoria anche quando, come spesso accade, vengono utilizzate terminologie alquanto vaghe quali “insubordinazione lieve” o “negligenza”.

In conclusione, la Corte costituzionale, pur avendo sempre affermato che la reintegrazione non è la soluzione sanzionatoria costituzionalmente necessaria, nei fatti l’ha resa la sanzione predominante in caso di un licenziamento illegittimo, riconoscendo ampia discrezionalità ai giudici. Quello che oggi ne esce fuori è un impianto sul quale, parallelamente, ha continuato ad incidere la giurisprudenza di merito e legittimità non sempre prestando la dovuta attenzione al valore sociale dell’impresa e al significato che le libertà economiche hanno, nell’interesse della collettività, nell’ordinamento interno e in quello europeo.

Ma ora, proprio dopo questa copiosa giurisprudenza, avendo ben presente quali sono i vincoli costituzionali che presidiano la materia, per il legislatore sarebbe davvero molto più facile adottare soluzioni in grado di riformare la materia garantendo un adeguato livello di prevedibilità della legge e, se del caso, un più consistente uso della sanzione indennitaria.

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