
«L’intelligenza artificiale è fatta di fabbriche, risorse naturali e capitali enormi. Non è un’entità eterea, ma un’infrastruttura industriale tangibile, dove ogni algoritmo è il prodotto finale di una filiera globale. Tuttavia, mentre Stati Uniti e Cina dominano questa corsa, investendo decine di miliardi e costruendo ecosistemi tecnologici solidi, l’Europa si è posta da sola fuori dai giochi, priva com’è di strategie incisive e risorse adeguate». Si pensi che tra il 2019 e il 2023 gli Usa hanno investito 329 miliardi di dollari in IA, la Cina 133, il Regno Unito 26, l’India 16, mentre il primo Paese EU è la Germania con 14 miliardi (dati Aiprm). È la visione di Alessandro Aresu, analista strategico, esperto di geopolitica e politiche pubbliche, nonché una delle voci di riferimento in Italia su temi legati alla tecnologia, all’economia e alla sicurezza internazionale. Nel corso della sua carriera, ha ricoperto ruoli di consulenza per istituzioni italiane, tra cui la Presidenza del Consiglio, il Ministero dell’Economia e il Ministero degli Esteri, ed è stato consigliere d’amministrazione dell’Agenzia Spaziale Italiana. Attualmente è consigliere scientifico della rivista Limes e direttore scientifico della Scuola di Politiche. Di recente, ha pubblicato un libro sull’IA, “Geopolitica dell’intelligenza artificiale” (Feltrinelli, Collana Scintille, 2024).
Per Aresu l’IA non è solo software o algoritmi, ma il risultato di un complesso sistema industriale e materiale. Alla base dell’IA ci sono i data center, enormi strutture fisiche dove i modelli vengono addestrati e operano, utilizzando supercomputer e server alimentati da semiconduttori, ovvero microchip avanzati che rappresentano il “cervello” tecnologico di questi sistemi. Questi componenti dipendono a loro volta da risorse materiali come silicio, litio, cobalto e terre rare, oltre a una significativa quantità di energia. L’Europa non è presente in nessun nodo di questa filiera.
Il tema dell’ossessione regolatoria europea, incarnato nell’AI Act dell’EU, mostra tutti i suoi limiti proprio nel caso dell’IA: l’Europa punta a codificare il futuro senza avere il controllo delle aziende che lo costruiranno. In altre parole: l’Europa tenta di definire le regole del gioco nell’intelligenza artificiale, ma lo fa da una posizione di debolezza strutturale. Non si tratta solo della mancanza di grandi aziende tecnologiche, capaci di competere con i colossi statunitensi e cinesi (ad esempio Microsoft, Google, Amazon, Meta, Alibaba, Tencent e ByteDance), ma anche di un deficit negli investimenti, nelle infrastrutture e nelle capacità tecnologiche. La filiera dell’IA richiede risorse enormi, non solo per lo sviluppo dei software, ma anche per l’infrastruttura materiale che li sostiene. I data center, che alimentano l’IA, dipendono da supercomputer avanzati, realizzati con semiconduttori, acciaio, rame e acqua. Questi elaboratori sono prodotti negli Stati Uniti, in Cina e a Taiwan. Senza investimenti massicci, l’Europa rimane un cliente, non un produttore, in questo contesto. Questo doppio svantaggio priva il continente del potere di influenzare significativamente lo sviluppo globale dell’IA, trasformandolo in un regolatore privo di leve concrete. Eppure, altrove l’IA sarà un grande driver di sviluppo. Con un tasso di crescita del 19% annuo, il valore del mercato dell’intelligenza artificiale potrebbe superare i 2.500 miliardi di dollari entro il 2032. Si prevede che l’intelligenza artificiale contribuirà ad un aumento netto del 21% del Pil degli Stati Uniti entro il 2030 (dati Aiprm).
La teoria dell’“Effetto Bruxelles”, secondo cui le normative europee influenzano gli standard globali, è poi sempre più fragile. Con una quota del Pil globale scesa al 16%, l’Europa rischia di vedere le sue norme ignorate dai grandi attori tecnologici, che potrebbero preferire mercati più remunerativi e meno regolamentati come quelli asiatici.
In Europa peraltro emerge è un’allocazione poco strategica delle risorse pubbliche, con una forte enfasi su progetti etichettati come “green”, spesso accompagnati da una complessità burocratica che ostacola l’efficienza. In Italia, miliardi di euro vengono destinati al risparmio energetico per macchinari in settori non particolarmente energivori, come il packaging, mentre potrebbero essere utilizzati per aree chiave come appunto l’AI o la ricerca di base, cruciali per la competitività futura.
Anche il Belpaese si è dotato qualche mese fa di una “Strategia italiana per l’intelligenza artificiale 2024-2026”. Ma il documento manca di concretezza, poiché definisce obiettivi senza prevedere investimenti adeguati né strumenti pratici per realizzarli. Senza risorse economiche, tecniche e umane ben pianificate, una strategia rimane poco più che un elenco di intenzioni.
Ma non tutto è ancora perduto. L’Europa può ancora ritagliarsi un qualche ruolo nell’ecosistema globale dell’IA, sfruttando le sue eccellenze in settori altamente specializzati. Un esempio emblematico è l’azienda olandese Asml, leader mondiale nella produzione di macchinari per la litografia dei semiconduttori, essenziali per realizzare i chip più avanzati. In Italia, realtà come Spea e Tecnoprobe si distinguono per la produzione di sistemi di testing elettronico, mentre Basf, con una presenza significativa in Europa, è un punto di riferimento globale nella chimica avanzata. Con un approccio strategico mirato, l’Europa potrebbe diventare partner indispensabili per i giganti globali della tecnologia. Non si tratta di competere direttamente con questi ultimi, ma di posizionarsi come fornitori chiave di componenti, know-how e tecnologie avanzate. Solo così sarà possibile riconquistare una posizione rilevante nello scenario globale dell’innovazione.
D: Quali sono i punti chiave o gli spunti più significativi che emergono dall’attuale panorama dell’intelligenza artificiale e che potrebbero offrire nuove prospettive soprattutto a un pubblico qualificato composto da industriali, manager, imprenditori e professionisti nel campo delle tecnologie? In che modo questi elementi possono essere rilevanti per comprendere e affrontare le sfide e le opportunità di un settore in continua evoluzione?
R: Il libro che ho dedicato all’intelligenza artificiale, “Geopolitica dell’intelligenza artificiale”, offre spunti nuovi, perché racconta la storia delle aziende più rilevanti in questo settore, a partire da Nvidia. Nvidia è oggi l’azienda con la maggiore capitalizzazione al mondo, e si prevede che fatturerà 100 miliardi di dollari nel segmento dei data center. Ecco, anzitutto è opportuno che gli industriali sappiano quali sono le aziende leader del settore e che comprendano come funziona il mondo dell’AI. E come funziona? Per comprenderlo, è fondamentale partire dal presupposto che l’intelligenza artificiale è intimamente legata al mondo dell’industria e della manifattura. L’intelligenza artificiale non è semplicemente un insieme di programmi, ma è principalmente una rete di fabbriche: questo è l’aspetto cruciale che sottolineo maggiormente. I programmi di intelligenza artificiale, in particolare quelli per la generazione di testi o immagini, funzionano perché i cosiddetti modelli vengono addestrati e operano su infrastrutture come i data center. L’intelligenza artificiale è sostenuta da queste fabbriche tecnologiche: i data center, che sono magazzini che ospitano supercomputer prodotti da alcune aziende, la principale delle quali è Nvidia. Ma c’è di più.
D: Lei ha spiegato che l’intelligenza artificiale non è solo software, ma si basa su infrastrutture complesse come i data center, che operano grazie a tecnologie avanzate e risorse materiali. Può approfondire questo aspetto, spiegando in che modo questi elementi fisici completano il quadro industriale dell’IA e perché sono così cruciali?
R: Dietro questi data center ci sono risorse materiali essenziali come acqua, acciaio e rame, elementi fondamentali per farli funzionare. A loro volta, i supercomputer vengono prodotti grazie a un ecosistema industriale che comprende la filiera dei semiconduttori. La prima lezione che un industriale può apprendere dal mio libro è che l’intelligenza artificiale è un oggetto industriale. La visione secondo cui l’AI sarebbe solo un software o un programma, privo di collegamento con una struttura e una filiera industriale, è totalmente falsa.
D: La Commissione Europea prevede di investire un miliardo di euro all’anno nell’IA grazie ai programmi Europa digitale e Orizzonte Europa. L’obiettivo è attrarre oltre 20 miliardi di euro di investimenti totali annui in intelligenza artificiale nell’UE in questo decennio. Ma solo quest’anno le cinque principali società tecnologiche al mondo (Microsoft, Google, Amazon, Meta, Apple), che non sono europee, hanno investito 209 miliardi di dollari nell’IA
R: La competizione sull’intelligenza artificiale è determinata dalla presenza di imprese specializzate nella filiera dell’IA all’interno dei vari Paesi. Se un Paese o un’area non dispone di queste imprese, semplicemente non esiste in questo ambito. Invece di essere un produttore, diventa solo un cliente. Questo è un punto fondamentale. Come si diceva, esiste una filiera, un ecosistema, che va dai data center alla realizzazione dei vari prodotti: se non hai aziende che operano in questi settori, sei tagliato fuori. Diventi solo un cliente, e questo è il primo aspetto. Il secondo punto riguarda la necessità di investimenti in conto capitale giganteschi. Questi investimenti, a livello mondiale, vengono sostenuti da aziende come Microsoft, Facebook, Google, oppure da colossi cinesi come Alibaba, Tencent e ByteDance (per intenderci, la società di Tik Tok) che possono permettersi di investire decine di miliardi. La corsa dell’intelligenza artificiale è una funzione della corsa digitale più ampia, e l’Europa, nel XXI secolo, è il grande perdente di questa sfida globale. Non abbiamo grandi aziende tecnologiche di riferimento. Quindi, prima di agire, bisogna porsi una domanda chiave.
D: Ecco: di cosa parliamo esattamente? Quali sono gli elementi fondamentali che un Paese o un’area devono possedere per essere protagonisti in questo settore? È sufficiente investire in programmi di sviluppo come quelli dell’Unione Europea, o servono altri elementi chiave?
R: La domanda chiave è: possiedi grandi aziende tecnologiche o no? Se la risposta è no, allora resti indietro rispetto agli altri, in modo netto. Un altro punto essenziale è avere capacità di elettronica avanzata. Per esempio, Taiwan ha una filiera della microelettronica senza la quale non si potrebbe produrre nulla. Oppure gli assemblatori di elettronica, come Foxconn, che costruiscono fabbriche nei Paesi dove esistono queste filiere. Se non hai queste capacità o infrastrutture sul tuo territorio, il risultato è lo stesso: sei fuori dai giochi. L’Europa si trova in una situazione di crescente dipendenza dal resto del mondo, e questa dipendenza digitale è diventata evidente già anni fa, quando abbiamo smesso di produrre telefonini. Nokia, ad esempio, è stata messa fuori mercato da Apple e dagli smartphone. Ci sono regioni del mondo dove esiste una supply chain per l’elettronica avanzata, e altre, come l’Europa, dove non esiste. Così, noi europei compriamo supercomputer, ma questi vengono realizzati con hardware e software americano, asiatico, cinese o taiwanese. Questo è il quadro della nostra debolezza.
D: C’è però l’AI Act (Artificial Intelligence Act), un regolamento (presentato dalla Commissione Europea nell’aprile 2021 e approvato dal Consiglio dell’Unione europea il 21 maggio 2024) per codificare e normare l’uso dell’intelligenza artificiale nell’Unione Europea.
R: Quello che dovremmo fare è pensare a una regolamentazione che renda più semplice operare, attirando talenti e imprese a livello globale. Dovremmo creare un contesto in cui aziende e professionisti dicano: “Andiamo in Europa, in Italia, in Francia, perché lì si può lavorare liberamente e la vita è più semplice”. Ma se il sistema rende tutto più difficile, come accade ora, nessuno verrà qui, nemmeno se da noi si vive meglio o si mangia meglio. I dati ci confermano questa realtà: perdiamo la competizione internazionale per attrarre e trattenere talenti. E se non vinciamo questa competizione, tutto il resto diventa irrilevante. Regolare l’operato di un’azienda non conta nulla se non hai le persone e le competenze per far funzionare quel sistema. Lo stesso vale per il cosiddetto Effetto Bruxelles.
D: Che cos’è esattamente l’Effetto Bruxelles?
R: Secondo questa teoria, siccome l’Europa è un grande mercato, le aziende digitali non europee, come Apple o altre, devono operare qui e quindi rispettare le nostre regole. Creiamo normative complesse sulla privacy, per esempio, e presumiamo che vengano adottate anche in altri mercati. E in passato, un po’ questo è successo: alcune grandi aziende hanno accettato di adattarsi agli standard europei, anche se protestavano, perché era conveniente farlo in un mercato importante come il nostro. Solo che nel 2008 il Pil dell’UE era pari a 16,3 trilioni di dollari, contro i 14,7 trilioni degli Usa e contro i 4,6 trilioni della Cina. Nel 2023, il Pil dell’EU era pari a 17,1 trilioni, contro i 27,3 trilioni Usa e 17,8 trilioni della Cina. In pratica, in soli 15 anni ci siamo dimezzati rispetto agli Usa; e la Cina, che era tre o quattro volte più piccola, ci ha superati. Insomma, il mercato europeo è sempre meno importante, centrale e appetibile. Per cui adattarsi ai nostri standard è sempre meno strategico. Se il nostro peso relativo continua a ridursi, arriveremo a un punto in cui le aziende estere decideranno che il mercato europeo non vale più lo sforzo.
D: E quindi, cosa potrebbero fare queste aziende extra-europee scettiche sui regolamenti UE?
R: Potrebbero scegliere di non fornire certi prodotti o servizi qui, evitando di sottostare alle nostre regole. In pratica, questa teoria dell’Effetto Bruxelles non tiene conto delle leggi della competitività internazionale. Se nel 2000 il mercato europeo rappresentava una percentuale significativa del mercato globale e oggi quella percentuale è scesa, il nostro potere di contrattazione diminuisce progressivamente. Quindi, se continuiamo a concentrarci solo sulle regole senza affrontare il problema della crescita e della competitività, rischiamo di isolarci, con un mercato meno attraente per talenti, capitali e aziende.
D: Tornando alla regolamentazione europea, l’AI Act adotta un approccio basato sul rischio, classificando le applicazioni di IA in “vietate”, “ad alto rischio”, “a rischio limitato” e a “rischio minimo”. Ecco, davvero queste norme impediscono gli usi distruttivi dell’intelligenza artificiale? Sono davvero efficaci, o sono solo grida manzoniane?
R: Dipende dagli ambiti. Prendiamo, ad esempio, il riconoscimento facciale, una tecnologia usata per la sorveglianza. Qui l’intelligenza artificiale è dominata da grandi capacità tecnologiche, spesso cinesi, come quelle di aziende tipo Hikvision (Hangzhou Hikvision Digital Technology), che possono passare da una semplice videocamera a sistemi in grado di profilare i volti e le caratteristiche delle persone attraverso analisi dati molto sofisticate. L’intelligenza artificiale applicata al riconoscimento facciale può avere numerosi utilizzi positivi. In ambito aeroportuale e nei luoghi pubblici, accelera i controlli di sicurezza, semplificando l’identificazione dei passeggeri e riducendo i tempi di attesa.
L’intelligenza artificiale è dominata da grandi capacità tecnologiche, spesso cinesi, come quelle di aziende tipo Hikvision (Hangzhou Hikvision Digital Technology), che possono passare da una semplice videocamera a sistemi in grado di profilare i volti e le caratteristiche delle persone attraverso analisi dati molto sofisticate.
Supporta inoltre le forze dell’ordine nella ricerca di persone scomparse o nella identificazione di criminali. È preziosa anche nella sanità, dove consente di riconoscere rapidamente i pazienti per offrire cure tempestive e personalizzate. Nel settore privato, garantisce accesso sicuro a dispositivi personali come smartphone e computer e migliora l’esperienza dei clienti attraverso la personalizzazione di servizi e prodotti. Ma l’IA usata per fini di profilazione e controllo sociale è un problema evidente. In questo senso, alcune norme europee recentemente introdotte rendono più difficile portare avanti attività di questo tipo sul territorio europeo. Questo è un aspetto positivo e va riconosciuto. Ma non è tutto. Altri usi problematici riguardano l’ambito militare, come l’analisi dei dati per applicazioni belliche. Questo è un tema legato alla competitività delle industrie della Difesa. Se si escludono determinate applicazioni militari, come la creazione di gemelli digitali per aerei da guerra o altri sistemi avanzati, si penalizzano le aziende europee rispetto ai concorrenti internazionali, riducendo le capacità industriali e strategiche. Tuttavia, l’uso dell’intelligenza artificiale nei teatri militari non sparirà: altre nazioni continueranno a sviluppare queste tecnologie. Ma c’è un terzo aspetto da considerare.
D: Qual è questo terzo aspetto da considerare?
R: È un aspetto che spesso derido nel mio libro: la narrativa fantasiosa secondo cui un “super programma” potrebbe un giorno prendere il controllo dell’umanità. Questi scenari da fantascienza vengono promossi di tanto in tanto da alcune grandi aziende tecnologiche, spesso per distrarre l’opinione pubblica da questioni più immediate. Si parla di rischi remoti, ipotizzando che un programma con un certo numero di parametri possa sviluppare capacità pericolose, magari legate alla biosicurezza. Ma in realtà, queste sono ipotesi vaghe, che difficilmente troveranno riscontro concreto nel breve termine. Insomma, il mio giudizio complessivo è misto. Da un lato, le norme europee su certi aspetti, come la profilazione tramite immagini, sono utili per limitare gli usi malevoli. Dall’altro, ci sono conseguenze negative sulla competitività di alcune industrie fondamentali, come la Difesa. Infine, ci sono discorsi ancora molto futuristici che, per ora, distraggono dai problemi reali. Ma resta un punto cruciale sulla regolamentazione.
D: Qual è il punto cruciale sulla regolamentazione?
R: Il punto cruciale è che la regolamentazione è efficace solo se riguarda settori dove esistono imprese forti. Se regoli qualcosa su cui non hai aziende leader, la tua regolamentazione non sarà mai incisiva. La vera questione per l’Europa è attrarre e trattenere talenti, oltre che capitali. Sono le persone che sviluppano e portano avanti queste tecnologie, e se l’Europa non riesce a competere per attirare i migliori talenti e mantenere quelli che ha, resteremo indietro. Attrarre talenti e mobilitare capitali deve essere il focus, perché senza questi, qualsiasi regolamentazione è sterile e priva di impatto concreto.
D: Pochi giorni dopo l’AI Act, è stata pubblicata la “Strategia italiana per l’intelligenza artificiale 2024-2026”, che si concentra principalmente sulla definizione di obiettivi strategici; tuttavia, non emerge una pianificazione chiara e specifica delle risorse economiche, tecniche e umane necessarie per conseguirli.
R: Senza investimenti significativi è difficile parlare di strategie reali. In un ambito come questo, le strategie devono partire dagli investimenti, che rappresentano il punto di partenza imprescindibile. Inoltre, è necessaria una semplificazione regolatoria: non servono ulteriori regole o vincoli, ma piuttosto strumenti che rendano più semplice l’applicazione concreta delle politiche. Prendiamo come riferimento il documento sulla strategia per l’intelligenza artificiale e la sicurezza nazionale pubblicato dal Pentagono nel 2021. Si tratta di un documento corposo, quasi 600 pagine, ma con due caratteristiche fondamentali. Primo, propone azioni concrete per difendere le capacità tecnologiche degli Stati Uniti dalla Cina, ampliandole al contempo per competere meglio a livello internazionale. Secondo, il documento è supportato da una rete di imprese tecnologiche forti che danno peso e concretezza alla strategia. Questo è il modello che dovremmo seguire, sia a livello nazionale che europeo. Ma, francamente, non ho mai visto un documento prodotto in Europa che si avvicini a questa profondità di analisi e a questa capacità di visione strategica.
D: L’Europa e l’Italia in particolare investono risorse nel risparmio energetico. In Italia, con Transizione 5.0, si parla di 6 miliardi di euro per quello dei macchinari. È davvero strategico, considerando che spesso si tratta di apparecchiature utilizzate in settori non particolarmente energivori, come il packaging o l’assemblaggio? Non sarebbe forse più utile destinare una parte significativa di questi fondi a settori cruciali per la competitività, come l’intelligenza artificiale o la ricerca di base?
R: È un problema di prospettive. Viviamo immersi in parole d’ordine come green, che vengono attaccate a qualsiasi cosa. Se un progetto non è etichettato come green, sembra quasi non abbia diritto di esistere, anche se manca una reale definizione del valore aggiunto di queste scelte. Per esempio, guardiamo a Industria 5.0, collegata a Transizione 5.0: c’è una quantità impressionante di moduli burocratici da compilare, poi il Gse deve valutare, approvare o rigettare ogni richiesta. Se analizziamo il contesto internazionale, vediamo che peraltro nel resto del mondo non funziona così. L’Inflation Reduction Act (Ira) degli Stati Uniti offre crediti fiscali chiari e standardizzati, senza complicazioni inutili. In Corea del Sud, grandi aziende come Samsung non devono affrontare vincoli di questo tipo. Se Samsung decide di fare un investimento strategico, nessuno pone condizioni che ostacolino il loro lavoro: lì comanda Samsung, non la burocrazia.
D: Sul fronte dell’intelligenza artificiale si può ancora recuperare qualcosa, in Europa?
R: Quanto ad operazioni di prima linea, secondo me no. È una conclusione a cui sono arrivato approfondendo questi temi, anche nei miei libri. Perché sono così netto? Perché il principale errore della mentalità europea è pensare di poter creare aziende come Google o Microsoft. Questo non è possibile. Non abbiamo il sistema adatto, e per varie ragioni strutturali non siamo in grado di generare imprese di quella portata. Dico quindi chiaramente che non può accadere. Un altro esempio emblematico riguarda l’industria dei semiconduttori. L’Europa ha dichiarato l’obiettivo di aumentare la propria quota nel valore aggiunto di questo settore dal 10% al 20% entro il 2030. Ma analizzando come funziona questa industria, capiamo che è un obiettivo irrealistico. Gli Stati Uniti stanno investendo decine di miliardi di dollari per recuperare terreno rispetto all’Asia, mentre l’Europa investe molto meno. Inoltre, gli Stati Uniti vantano aziende di riferimento come Apple e Nvidia, che generano un forte incentivo a localizzare la produzione nel loro territorio. Per competere, gli europei dovrebbero decuplicare i propri investimenti, ma questo non accadrà mai, a causa delle rigidità fiscali e strutturali dell’Unione Europea.
D. Insomma, questa ambizione dell’Unione Europea di raddoppiare la propria quota di valore aggiunto senza comprendere le dinamiche del settore sembra essere poco intelligente
- Lei lo ha detto.
D: Allora, se non si può agire in prima linea, creando grandi aziende tecnologiche o rafforzando l’industria dei semiconduttori, che cosa si può fare in Europa nel settore dell’intelligenza artificiale?
R: Le strade sono essenzialmente due. La prima consiste nel concentrarci su nicchie industriali altamente specializzate. La microelettronica, ad esempio, è legata a settori di nicchia. Il punto non è competere direttamente con Stati Uniti, Cina, India o altri grandi Paesi emergenti, ma individuare imprese europee che operano in settori specifici, come la fabbricazione di macchinari per semiconduttori o la chimica necessaria ai processi produttivi digitali e all’elettronica avanzata. Ci sono esempi concreti: Asml, nei Paesi Bassi, è l’azienda leader mondiale nelle macchine per la produzione di semiconduttori. In Italia, abbiamo realtà come Spea e Tecnoprobe, che si occupano di test elettronici, o Basf, leader nella chimica. L’obiettivo deve essere facilitare la vita di queste aziende, eliminando regole che le spingono a delocalizzare in Asia o altrove. Invece di inseguire obiettivi irrealistici come “creare una Microsoft europea”, dobbiamo rendere più competitiva la nostra industria esistente.
D: Quali altre strategie realistiche potrebbero adottare i Paesi europei per valorizzare le loro competenze e settori di nicchia, e in che modo queste possono essere integrate nel contesto più ampio delle filiere tecnologiche globali?
R: Un secondo aspetto cruciale riguarda le capacità digitali delle imprese tradizionali. Un caso interessante è quello dei supermercati Lidl, che recentemente sono diventati un importante operatore cloud europeo, fornendo servizi digitali ad altre imprese grazie al lavoro sui dati sviluppato all’interno della loro attività principale. Questo dimostra che anche industrie apparentemente tradizionali possono cogliere le opportunità del digitale e trasformarsi in leader innovativi. Insomma, il mio ragionamento si articola in due parti: la prima è capire come sono fatte le filiere tecnologiche e industriali e qual è la posta in gioco nella guerra dei chip tra Stati Uniti e Cina; la seconda è individuare le mosse realistiche che possiamo fare come europei e italiani. Con più capitali e maggiore semplificazione normativa, possiamo sfruttare alcune opportunità, ma dobbiamo accettare i nostri limiti strutturali e concentrarci su ciò che è davvero alla nostra portata.
D: Insomma, il messaggio chiave del suo libro è la dimensione fisica dell’intelligenza artificiale…
R. Non dovremmo più pensare a ChatGpt o ad altri programmi di IA come entità eteree che risiedono nel nulla. Ogni volta che usiamo un programma di intelligenza artificiale, dobbiamo ricordare che è supportato da un insieme di fabbriche. L’esistenza stessa dell’intelligenza artificiale dipende da chi gestisce e opera queste fabbriche, da chi sa fare manifattura su larga scala. Questo è il cuore di Geopolitica dell’intelligenza artificiale.
(Ripubblicazione dell’articolo pubblicato il 12 dicembre 2024)
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